«La porta si aprì e un’energia totalmente sconosciuta m’attaccò come un animale. Non lo vidi neanche, sentii solo quest’energia tremenda che mi tolse il respiro e mi scaraventò contro il muro»; «È mio schiavo. L’ho veduto piangere, quante volte, rotolarsi a terra…»; «Mi è sembrato un frocio su una sedia a rotelle con un maglione giallo». Per quanto sembri incredibile, queste tre descrizioni si riferiscono alla stessa persona: Julius Evola. La prima, quella che dipinge il pensatore come una figura dall’irresistibile fascino magnetico, è di Sigrid von Perbandt, moglie del pensatore völkisch Ludwig-Ferdinand Clauss. La seconda, quella sull’Evola che frigna, è il ritratto inserito da Sibilla Aleramo nel romanzo Amo, dunque sono. La lapidaria e volgare sentenza finale viene invece dall’esponente della lotta armata Pierluigi Concutelli, ordinovista ed ergastolano. Tre ricordi, tre punti di vista che indagano, in modi radicalmente differenti, la dimensione «erotica», in senso lato, dello scrittore tradizionalista.
Ma chi era, il vero Evola? L’algido seduttore irresistibile, l’amante sottomesso e piagnucoloso o l’esangue intellettuale svirilizzato? All’Evola teorico, ma anche praticante, della metafisica del sesso sono dedicate alcune importanti opere recenti. La prima è Le tre soluzioni di Julius Evola, di Sandro Consolato (Arya), raccolta di saggi editi e inediti su vari aspetti della figura del filosofo romano. Tra questi, ne spiccano due dai titoli particolarmente sfiziosi: Il misogino che voleva liberare le donne e Il Barone e le prostitute.
Nel primo scritto, Consolato ricostruisce la parabola del discorso evoliano sul femminile, partendo dalle atroci stilettate dei suoi anni dadaisti, in articoli come Gehst zu frauen?, uscito nel 1921, sulla rivista Cronache d’attualità in cui Evola si lasciava andare a delicatezze come la seguente: «La migliore maniera per disprezzare una donna è amarla; vale a dire farla essere quel che è: una massa sporca e sudata che attende». Nel 1925 rincarò la dose, scrivendo un articolo per la rivista Ignis dal raggelante titolo La donna come cosa. Nel primo caso fu Anton Giulio Bragaglia, nello stesso numero di Cronache d’attualità, a pungerlo: «J. Evola, nell’articolo da noi pubblicato in questo numero, ci dichiara le sue sensazioni avanti a una donna nuda, ma conserva in delicato riserbo le impressioni che prova davanti a un uomo nudo». Il mito (infondato) dell’Evola omosessuale – in quell’epoca, ricordiamo, andava in giro con le unghie laccate di verde – nacque in quegli anni, per passare poi alle bordate dell’ardito e futurista Mario Carli contro «la signorina Evola», fino alla battuta di Concutelli di cui si è detto.
Spenti i bollori avanguardistici, tuttavia, il pensatore tradizionalista giunse a tesi più articolate e non prive di interesse, espresse nel suo Metafisica del sesso, del 1958, e in numerosi articoli di costume, recentemente raccolti in volume dalla Fondazione Evola in un quaderno dal titolo Il problema della donna. Si tratta di un Evola diverso da quello di altri suoi scritti, allo stesso tempo esistenziale, ma anche «sociologo», indagatore spregiudicato di temi che a molto suo pubblico potevano sembrare scabrosi. Un Evola che, in quest’ambito, può dialogare più o meno esplicitamente con giganti del pensiero come Mircea Eliade e Carl Gustav Jung, come segnalato anche dagli interventi di un bel libro prossimamente in uscita per i tipi del Borghese: Eros, magia, sacro in Julius Evola. Per un eroticamente (s)corretto, a cura di Gianfranco de Turris, Andrea Scarabelli e Giovanni Sessa.
Tornando a Consolato, lo studioso ricorda opportunamente le prese di posizione evoliane in controtendenza rispetto agli orientamenti bigotti, ad esempio contro la discriminazione delle ragazze madri o contro la destra impegnata nella battaglia antidivorzista. Va anche ricordato il suo disprezzo per le anguste convenzioni sociali dell’Italietta democristiana degli anni Cinquanta e la sua preferenza per un modello di donna mitteleuropeo, in cui franchezza, emancipazione sessuale, libertà interiore e presenza di spirito erano tratti dominanti.
In quest’ottica, sono interessanti le sue riflessioni sulla legge Merlin (consultabili anche nel già citato quaderno della Fondazione), che per Evola era «una espressione tipica per quel miscuglio di ipocrisia, di irresponsabilità di falso zelo, di rettorica e di moralismo che caratterizza, in genere, il clima democristiano». Quanto al rapporto, per così dire, pratico di Evola con le professioniste dell’amore, Consolato ricorda un paio di aneddoti: uno relativo al soggiorno del pensatore a Bologna, nel 1951, in cui egli ricevette nella sua pensione le visite di alcune prostitute, l’altro raccontato dal pittore serbo Dragos Kalajic, secondo cui una modella gli avrebbe confessato «di recarsi regolarmente da un interessante vecchio paralizzato, con cui faceva l’amore». Piccolo particolare: dopo l’incidente alla colonna vertebrale di cui fu vittima nel 1945, Evola non era più in grado di avere un amplesso. Tant’è vero che, in un’intervista alla tv francese, ora tradotta in Autobiografia spirituale (Mediterranee) scherzò: «In Francia si è giunti a scrivere che a casa mia, ogni settimana, vengono celebrate messe nere con giovani fanciulle bionde. Vede, date le mie attuali condizioni, verrebbe da rispondere con queste parole tedesche: Zu schön um wahr zu sein, “Troppo bello per essere vero!”».
Vent’anni prima e una lesione alla spina dorsale in meno, però, le cose stavano in modo ben diverso. Secondo lo studioso austriaco Hans Thomas Hakl, che a Evola e le donne dedicò un saggio uscito sulla rivista La Cittadella, il filosofo da giovane era soprannominato «il ragno» per via delle tante ragazze che finivano nella sua «rete». Tra queste, appunto, la scrittrice Sibilla Aleramo, che descrisse la sua relazione con Evola nel romanzo Amo, dunque sono, in cui il filosofo è celato dietro al personaggio di Bruno Tellegra, che la protagonista contende a un’altra donna. Sarà quest’ultima a descrivere alla scrittrice l’immagine (riportata qui in apertura) di un Evola sottomesso sentimentalmente, francamente non troppo credibile.
Prima seduttore, poi sessuologo, Evola mantenne invece per la famiglia una sorta di repulsione. Se in Cavalcare la tigre la definì «una istituzione piccolo borghese determinata quasi esclusivamente da fattori conformistici, utilitari, primitivisticamente umani e al massimo sentimentali», anche a livello personale mantenne la medesima indifferenza. Della sua famiglia natia non parlò praticamente mai. E delle sue numerose relazioni giovanili, nessuna sembra sia mai stata sul punto di accedere a un livello più «serio». Nella già citata intervista alla tv francese confessò ridacchiando: «Da un punto di vista sessuale, non sono per la monogamia». Per il mistero della maternità conservò una persistente diffidenza: se in Gehst zu Frauen? sparò a pallettoni («La maternità è la prova irrefutabile della bestialità della donna»), anche in Metafisica del sesso ribadì che «sarebbe difficile indicare che cosa la maternità abbia di sublime». Quanto all’empatia per i bambini, basterà a riguardo ricordare l’aneddoto raccontato da Geminello Alvi, il cui zio, Ciro Alvi, fu editore di alcune opere di Evola. Un giorno, mentre i due erano al telefono, il rumore di una lite infantile disturbò la conversazione. Evola, glaciale, diede il seguente consiglio all’interlocutore: «Ai bambini dia dell’arsenico».
(«La Verità», 17 marzo 2020)