L’articolo che segue uscì su «Lo Stato Democratico», diretto dal Duca Giovanni Antonio Colonna di Cesarò, il 15 agosto 1925 (per un errore tipografico, fu addirittura pubblicato una seconda volta sul quotidiano antifascista!). È una delle primissime incursioni evoliane nella politica del tempo, già tuttavia analizzata secondo prospettive autenticamente metapolitiche, come emerge proprio nelle prime righe dello scritto, che potrebbero essere considerate una sorta di manifesto della visione del mondo evoliana.
Il pezzo uscì con questa nota redazionale, composta dal direttore in persona: «Abbiamo tante volte insistito che gli articoli che Lo stato democratico pubblica, esprimono il pensiero personale dei loro autori e non implicano l’assenso ufficiale di quella corrente politica che fa capo alla nostra rivista, per aver bisogno di ripeterlo ancora. Ma con questo articolo di J. Evola, ci troviamo dinanzi, non già a uno scritto che entro l’ambito delle concessioni democratiche esponga direttive diverse dalle nostre, bensì ad una critica della dottrina democratica, che parte da chi professa idee nettamente antitetiche alla medesima; anzi da chi, sotto molti riguardi, postula dei principii che anche il fascismo invoca a base delle proprie teoriche. Ciò non pertanto, ospitiamo volentieri lo studio dell’Evola, sia perché, non essendo egli fascista, il suo scritto dimostra come anche i postulati dell’antidemocrazia non debbano menomamente condurre alle conclusioni del fascismo; ma sopra tutto perché, convinti, come siamo, che prima condizione per qualsiasi forma di vita politica sana sia la creazione nella coscienza dei cittadini di un sostrato filosofico sul quale si fondino le convinzioni politiche e sociali, reputiamo utile al progresso nazionale, e alla stessa causa della Democrazia, qualunque dibattito o polemica che agiti i problemi politici in un’aura di cultura». Per la cronaca, ne Il cammino del cinabro (Edizioni Mediterranee, Roma 2018, p. 147), così Evola ricorderà questo pezzo, peraltro sbagliando il nome del giornale su cui uscì: «Il mio primo scritto politico derivò da un invito del duca Giovanni Colonna di Cesarò, con cui ero in rapporti di cordiale amicizia, a gettar giù qualcosa per una sua rivista che, se ben ricordo, si chiamava “L’Idea democratica”. Risposi che avrei potuto scrivere solo una demolizione della democrazia – ed egli accettò, dicendomi consistere proprio in ciò il privilegio della “libertà democratica”».
F.J.E.
In queste stesse colonne ho avuto occasione di dichiarare che la politica non costituisce precisamente il centro dei miei interessi, né (si perdoni lo scandalo) credo possa costituire mai un centro per nessuno che voglia vivere profondamente la propria vita; che per me un problema politico in tanto ha valore, in quanto si risolve in problema filosofico e spirituale; epperò che a questo livello , e non a quello di un qualsiasi partito, va inteso quel che per avventura posso dire su tali argomenti.
Tuttavia qui bisogna anche mettere un po’ le mani avanti. Vi sono dei begli spiriti i quali, di contro a tutto ciò che procede da considerazioni speculative, hanno costume di stringersi nelle spalle, e dichiarare con aria di superiorità che in politica è quistioni di fatti e di realtà, non di concetti e di astratte teorie. L’atteggiamento di questa gente è, ad un dipresso, uguale a quello di chi andasse a dire al fisico che le sue sono idee e chiacchiere, e che la realtà vera è ciò che gli risulta direttamente dai sensi: giacché alla filosofia non cade la sua materia dai cieli, ma essa è quella stessa del sapere volgare, portata però a riflessione, a consapevolezza critica, a forma che rende conto di sé. D’altra parte lo stesso senso comune non essendo che una filosofia allo stato rudimentale, nella pretesa di cotesti «spiriti positivi» si ha soltanto l’arroganza e la presunzione dell’inferiore di contro al superiore, l’inerzia di coloro che non vogliono o non sanno pensare e a cui torna conto, anziché risolverli, porre i problemi sotto forma di soluzione, e lasciarli circolare così.
È davvero sorprendente (e questo è il capovolgimento dell’accusa di astrattismo) quanto in politica ci si accontenti di semplici parole: ché tali sono i concetti (libertà, popolo, eguaglianza, ecc.) quando siano presi di peso dal linguaggio comune, senza curarsi di prima definirne ed approfondirne il contenuto. Ora è incontestabile che le parole possono molto, anzi spesso assai più che non le idee (basti por mente all’effetto di tante liriche, quanto vuote, volate finali di discorsi), ma si tratta di vedere a che giuoco si giuoca: se si cercano soltanto modi per riuscire, ovvero se la riuscita voglia mettere capo a qualcosa, che abbia valore in sé stesso.
L’idea deve giudicare la realtà e non viceversa, checché ne dicano alcuni fabbri elevati a duci. Ciò è vero persino nella fisica (ove il fatto non significa nulla fuori dalla sua interpretazione in una legge), e tanto più in politica, ove la parte dell’uomo non è quella di uno che sta semplicemente a guardare come vanno le cose, bensì quella di un legislatore, di un attore, di un essere da cui dipende che alcune forze prendano una direzione e non un’altra, che alcune correnti di fatti si determinino, e altre no. Ma questo significa valutare, giudicare, trascendere il dato in una dottrina, l’essere in un «dover essere». Non si speri di poter dare una reale soluzione ai problemi politici, statali, economici, ecc. quando soluzione non sia prima data al problema dei valori, che è essenzialmente un problema filosofico.
Ma in verità mi accorgo di essermi lasciato trasportare in una disquisizione che potrebbe trovar luogo nella prolusione ad un corso di politica, ma non qui, dove si tratta semplicemente di qualche nota critica sul democratismo, volta a mettere in luce vari problemi e difficoltà che incontra quando da partito voglia elevarsi a dottrina. La cosa ha un particolare interesse per il fatto che il democratismo è un motivo (alcune cattive lingue che si occupano di idealismo magico, direbbero: un male) caratteristico nell’ultima cultura europea. Profondante le sue radici nel cristianesimo, la sua idea centrale – non ci si spaventi del salto mortale – fonda anche dottrine in apparenza assai opposte, quali p. e. il comunismo e l’anarchismo. Ma, ancora una volta, qui non è quistione di una critica esaustiva del sistema – che, fra l’altro, bisognerebbe cominciare con il costruire speculativamente – ma soltanto di accenni rapsodici sul suo lato propriamente sociale.
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La definizione corrente del democratismo credo che sia quella di un auto governo del popolo, di una situazione in cui la volontà sovrana è quella dei molti, che la esprimono mediante il voto. Poiché i concetti si fanno più chiari quando siano illuminati dai loro contrari, definiamo la dottrina opposta a quella democratica. Essa corrisponderebbe ad una situazione ove la forma in cui vivono i molti sarebbe determinata non dai molti stessi, bensì da alcuni individui o da un individuo in virtù di una superiorità sugli altri.
Ciò posto, appare subito una cosa, su cui gli stessi democratici saranno d’accordo: che non si può pensare ad un puro democratismo. Si ha infatti un bel dire autogoverno; ma vi sarà sempre una distinzione fra i governati e i governanti, poiché se un ordinamento statale deve essere possibile, occorre che la volontà dei molti si concretizzi, si determini in particolari persone, a cui si affidi il governo. Ora è evidente che queste persone non saranno prese a caso, ma saranno invece quelle a cui si riconosce la maggior capacità ed attitudine, quindi, bon gré mal gré, una superiorità sugli altri, onde non saranno intesi come semplici portavoce, ma vi si supporrà un principio di autonomia, una iniziativa di legislazione. Il democratismo deve perciò in una certa misura incorporare la dottrina opposta. Di contro alla quale essa però riaffermerà questi due caratteri differenziali:
a) Che la superiorità dei governanti, quindi il loro esser tali, sia condizionata dal riconoscimento dei molti.
b) Che la libertà e l’autonomia dei governanti sia limitata dalla sanzione, da parte dei molti, di ciò che viene da essi determinato; essenzialmente: che essi prescindano dal loro interesse personale, per guardare invece all’interesse generale.
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Una prima difficoltà che il democratismo incontra, è questa: che uno dei principali caratteri distintivi di coloro che sono superiori sta nel fatto che, a differenza degli altri, sanno riconoscere e porre ciò che è valore come anche gerarchizzare i vari valori, subordinando i più bassi ai più alti. Se ciò è vero, si ha questo assurdo, che coloro che debbono giudicare e, con il loro voto, definire e confermare chi è superiore, sono coloro che, per ipotesi, sono i meno capaci di giudicare, ovvero il cui giudizio ha per criterio dei valori inferiori, p. e. quello della mera utilità materiale. Siccome la vista dei più è ristretta ai piccoli bisogni del qui e dell’oggi, è naturale che l’esperienza ci mostri che coloro che sanno prospettare il migliore avvenire in funzione di utilità pratica, hanno, in regime democratico, una fatale preminenza sugli altri. Si apre allora una tripla alternativa:
a) O il democratismo crede che i valori materiali siano una ultima istanza, ed allora su di esso non vale più la pena di parlare, dato il livello al quale ora ci si vuole attenere;
b) O si ritiene che il benessere materiale sia il compagno propiziatore di un progresso ideale. È questa una tesi a cui non si può dire subito di sì o di no, ma che va studiata ed approfondita. P. e. sta di fatto che momenti di crisi e di malessere generale hanno fatto scaturire nuovi valori, che hanno valso a dare alla storia direzioni prima sconosciute, laddove gli «ozi di Capua», i periodi di opulenza economica spesso hanno propiziato intorpidimento, ristagno nella vita dello spirito. Così, passando all’individuo, certi valori scaturiscono dal terreno della rinunzia, della sofferenza e della stessa ingiustizia; e un certo grado di tensione, di «esistere pericolosamente» è il miglior lievito per tener alto il senso della vita. Ma, anche ammessa la tesi, resta la difficoltà di intendere secondo che criterio i molti riconosceranno coloro che debbono dirigere, in quanto essi siano capaci di curarsi anche dei valori ideali, oltre a quelli materiali.
c) La terza alternativa consiste nell’idea, che vi sia un progresso nei molti, così che essi si facciano capaci sempre più di discernimento, di riconoscere valori superiori e così di eleggere coloro che veramente possono elevare la nozione non ad un semplice benessere comandato da un significato ideale. Ma, anche questa tesi non può venire concessa senza discussione. Oggi si fanno troppe ipoteche sul concetto di progresso, e troppo poco ci si accorge quanto più esso si connetta ad un desiderio che ad un dato di fatto. Poiché ora non è quistione di quel progresso relativo al semplice accorgersi che le cose vadano praticamente bene o meglio e al congruo sostituire uomini di governo ad altri; bensì di quel progresso che significa passaggio da un criterio materiale ad un criterio più alto di giudizio. Ora la storia fonda sul serio l’idea di un tale progresso? Sarebbe azzardato affermarlo. Le forze che hanno mosso le masse sono state ad un dipresso sempre le stesse. Se mai, è presumibile il contrario. Oggi, p. e., parecchi ridono di fenomeni, come le crociate; ed i civilissimi inglesi non sanno rendersi conto che popoli, come l’indiano, trascurino tutti gli interessi creati dalla civiltà meccanica e materialistica europea e restino fissi ad ordinamenti comandati da valori ideali e religiosi. Ed infine assai più torbida ci sembra la coscienza della Roma, dell’India e della Cina di oggi, che non quelle di millenni fa.
Il presupposto del democratismo è, in fondo, un radicale ottimismo. Assai poco esso sembra rendersi conto del carattere irrazionale – accertato da recenti studi anche sul terreno scientifico – della psicologia delle masse. Portata di là dagli interessi pratici, la massa si determina non secondo ragione, ma secondo entusiasmo e suggestione, cioè passivamente. Fondamentalmente femina, essa si dà a chi la sappia meglio affascinare, ed i mezzi a ciò sono ben lungi dal coincidere con l’attrattiva propria ad un valore e ad un ideale. E, come la femina, è incostante, essa passa dall’uno all’altro senza che un tale trapasso possa venire uniformemente spiegato mediante una legge intellegibile e progressiva. Ognuno vede che istanza avanzi ciò contro il principio di un «autogoverno del popolo»; principio che sarebbe fondato solamente quando nel popolo si potesse intendere come un solo essere, vivente di vita una, propria, cosciente e razionale.
È giunto il momento di richiamare l’attenzione del lettore sul fatto che più su, con intenzione, si è usato il termine «molti» e non altri, come «popolo», «umanità», «nazione». La ragione di ciò sta nel fatto che non si crede coerentemente sostenibile la reificazione o sostanzializzazione degli «universali» propria alla mentalità scolastica e i cui residui, malgrado le ondate purificatrici della filosofia critica e scientifica, non sono ancor oggi del tutto scomparsi. Che cosa significa p. e. l’uomo di là dai singoli uomini, francamente, aspetto ancora qualcuno che me lo faccia capire. Nella realtà so di uomini, ma dell’«uomo in generale» non so nulla o, per meglio dire, so che esso è nulla. L’«uomo» è infatti un semplice concetto ottenuto cancellando con l’astrazione propria ad un pragmatismo classificatorio le note specifiche dei singoli individui, i quali così si dileguano in una vuota uniformità. Come tale, esso è qualcosa che ha esistenza nella nostra mente, ma a cui nella realtà non può corrispondere nulla.
Per questo ho parlato di molti, ed ora indico il popolo, l’umanità, ecc., come semplici metafore, la cui unità da una parte è semplicemente verbale, dall’altra non quella di un organismo, ma quella di un insieme di forze urtantesi ed equilibrantesi fra loro, e, quindi, essenzialmente instabile e dinamica. Il democratismo ha il merito di riconoscere implicitamente ciò, nel suo mettere in risalto il fattore quantità, ma così si imbatte in difficoltà, che in altre concezioni sono in parte eliminate – eliminate però solo a prezzo di far della mitologia. Tale, p. e., la dottrina mazziniana; la quale rispecchia precisamente il ritmo della teoria scolastica, che gli «universali» (p. e. l’uomo) prima esistono di esistenza propria fuori dagli individui (dai singoli uomini) come pensiero divino (ante rem), poi esistono realmente nei singoli individui (in re, negli uomini), ed infine esistono idealmente nel pensiero umano, come concetto generico astratto dai singoli uomini (post rem). Del pari i mazziniani danno all’umanità una unità reale, vi vedono il riflesso di quella di Dio, il quale via via concepisce delle idee ante rem, le trasmette in re a questa unità sociale, che le realizza attraverso le persone che essa va a eleggere a guide. Presupposto il concetto dell’umanità e, in particolare, del popolo, come di un essere uno, reale, dotato inoltre di una immanente razionalità, le difficoltà sopra esposte verrebbero naturalmente meno e la dottrina democratica sarebbe in larga misura giustificata. Ma un tale procedere è dommatico, e non resiste dinnanzi a quel potente esorcizzatore di mitologisti, che è la teoria della conoscenza; la quale non può ammettere come logicamente fondato il riferimento a questa unità divina ante rem assicuratrice di una unità sociale che l’esperienza d’altronde mostra assai relativa; ed ancor meno questo assumere il punto di vista di Dio per da là considerare la storia, anziché intendere questa positivamente ed immanentisticamente, come storia umana. Giustificata così la riduzione del concetto di umanità a quello di uomini, del concetto di popolo a quello di cittadini, anche il concetto di una «volontà del popolo» risulta incorretto, e va sostituito come si disse, con quello di una unità che sorga dall’equilibrio contingente delle molte volontà, più o meno aggrappate. Come il getto di una cascata, che da lontano sembra fermo ed intero, ma da vicino risulta da una infinità di elementi diversi in incessante movimento. Ciò posto, il democratismo può assumere due forme distinte, che possiamo chiamare teleologica e statistica.
La prima sorgerebbe dall’idea del popolo appunto come di un sistema plurimo di volontà che non sarebbero già unificate, ma tenderebbero all’unità, unità che verrebbe loro data da esseri che da questo stesso giuoco di forze emergerebbero e che determinerebbero una particolare legislazione, correlativa quasi all’equilibrio organico di un corpo vivente.
Questo sarebbe l’aspetto più alto in cui potrebbe apparire la concezione democratica. Il male è però che, quando lo si vada a pensare a fondo, esso tende furiosamente a passare nella dottrina opposta.
La ragione è che, per usare l’imagine precedente, un organismo si distingue da un semplice composto per la sua unità individuale, cioè per il fatto della presenza di un principio che se contiene tutti gli elementi, i corpuscoli e le varie membra, non ne è però compreso, ma è superiore ad essi e li domina. In altre parole: l’unità di un organismo non è la mera somma delle sue parti, ma qualcosa in più: un’anima; e questo «qualcosa in più» che fa tale l’organismo non vive per le varie membra, ma queste subordina a sé – non fa cioè servire l’anima al corpo, ma il corpo all’anima. E l’interesse dell’anima può non essere quello del corpo che dall’uomo può essere anche, se vuole, violato, costretto, distrutto.
Ancora: di tutto ciò che è organico il principio è la causa finale, e la causa finale sta opposta alla causa meccanica. Nel meccanismo ciò che viene dopo si spiega con ciò che viene prima ed è da esso determinato; p. e. il moto di una palla si spiega con una spinta anteriormente impressa, e così via. Nel finalismo si ha il contrario: è ciò che viene dopo che condiziona e spiega ciò che viene prima; p. e. io compio una serie di atti per conquistare una donna: è questo conquistare una donna, che appare alla fine della serie, che ha condizionato tutta la serie stessa, che la ha presieduta sin dall’inizio e che la spiega. Così sta per gli organismi. Come fu visto da Aristotile, l’anima non è un «epifenomeno», qualcosa che si aggiunge alla fine e da fuori ad un corpo organizzato, bensì l’atto stesso del corpo, è il suo profondo principio organizzante, la ragione della sinergia, economia e simbiosi delle varie parti e funzioni a cui, come causa finale, si presuppone. L’idea opposta, che le unità organiche non siano che il risultato accidentale di cause meccaniche, delle combinazioni particolari fra le infinite possibili in un giuoco statistico, incontra difficoltà gravi e molteplici, tanto che dalla stessa biologia positiva oggi è quasi del tutto abbandonata. Ciò malgrado, essa resta l’idea base della seconda forma di democratismo che abbiamo detta statistica e di cui ci occuperemo più sotto.
La prima forma della dottrina democratica rispecchierebbe invece il concetto finalistico dell’organismo, ma, come tale, ad essa verrebbero meno i due caratteri sopra accennati, per cui si ha distinzione dalla dottrina opposta, cioè: la dipendenza dei capi dai molti, sia nel loro essere capi, che nelle leggi che come tali determinano. Infatti:
a) Nell’organismo i molti sono per l’unità, l’inferiore per il superiore e non viceversa (moltitudo non reddit rationem unitatis); correlativamente la massa, il popolo non avrebbe fine in sé stesso, ma in alcuni uomini superiori, che faticosamente tenderebbe ad esprimere, a cui starebbe nel rapporto di potenza ad atto, di materia ad anima, e da cui riceverebbe la forma e l’ordine della propria vita. Ciò, se non erro, è precisamente l’opposto dell’autogoverno, in cui si presuppone che il centro cada sui molti, e di essi i capi siano i semplici rappresentanti.
b) L’unità in cui converge un vero organismo possiede una vita superiore, avente fine in sé stessa, che non vive per i bisogni del corpo, ma invece usa il corpo come uno strumento e un mezzo; le limitazioni e le condizioni che dal corpo le vengono, le considererà come una imperfezione, e tenderà a superarle in un perfetto dominio, in un corpo interamente plastico allo spirito. Nel piano politico, ciò corrisponderebbe all’ideale del dominatore, del legislatore nietzschiano il quale, lungi dal vivere per essa, subordinerebbe al suo l’interesse della massa e alle sue leggi non riconoscerebbe a nessuno il diritto di dare una sanzione; il che rappresenta la più stridente contraddizione del secondo principio democratico – della sanzione popolare e della dedizione dei governanti all’interesse generale.
Un mio illustre amico – il duca Colonna di Cesarò – uno dei rari uomini politici che oggi si preoccupino di inquadrare in una visione ideale le loro dottrine sociali – in un corso di conferenza da me organizzato ha recentemente esposto delle interessanti idee sui rapporti fra uomo e umanità (vedine il resoconto riportato nella rivista «Ultra»; n. 3 del 1925, pp. 30-35). Due punti qui si vogliono riportare. Il Di Cesarò in primo luogo riconosce che vi è una unità sociale la quale, lungi dal rappresentare un punto di arrivo di uno sviluppo storico, ne costituisce soltanto il punto di partenza. Tale è quello stato, riscontrabile ancora in alcuni popoli primitivi, in cui i singoli non hanno coscienza di essere autonomi ma formano un vero essere collettivo ed impersonale, che è il loro popolo o tribù, in cui sono come perduti e fusi insieme. Ma questo stadio – affermò l’oratore – va sorpassato: di là dall’umanità debbono riaffermarsi gli uomini, i singoli come esseri distinti e coscienti di sé stessi. I quali sono sì destinati a tornare a un legame universale, ad una umanità, ma questa non sarà più un dato, quasi una natura, ma qualcosa che viene posto spontaneamente da essi, con un atto di libera adesione ed elezione. Questa ultima fase incorpora evidentemente la dottrina democratica, che vuole costruire l’unità sociale sulla base della volontà di un insieme di esseri uguali, autonomi e liberi.
In una pubblica discussione seguita a questa conferenza, chi scrive si è permesso di chiedere al Di Cesarò alcuni chiarimenti, che si connettono appunto a quel che si è detto sopra circa il fatale trapassare di un democratismo teleologico conseguente in una dottrina dello stato secondo dominazione. Chiedevo dunque in che consiste precisamente la differenza fra quell’umanità che sarebbe il punto di partenza, e quell’altra, che sarebbe il punto di arrivo dello sviluppo storico. Nella sua esposizione l’oratore aveva concessa una carta piuttosto pericolosa, e cioè una legge di individuazione progressiva. Ciò che differenzia i gradi più bassi dai gradi più alti della realtà, aveva detto, sta nel fatto che mentre nei primi l’individuo si può dividere in più parti aventi individualità propria, nei secondi una tale divisione non è possibile, tanto l’unità compenetra i molti, che essa domina organicamente. Si ha cioè una individuazione progressiva, che va dai sistemi fisici a quelli organici sino alla semplicità infrangibile propria all’autocoscienza umana. Ma qui, ha soggiunto il Di Cesarò, il processo non si arresta: l’individuazione progressiva che ha portato all’individuo umano, tende a superare questo in una più alta potenza di individuazione, che è l’individuo sociale, l’unità spirituale dell’umanità. Questa unità si differenzia dunque dal punto iniziale nel suo essere il culmine di un processo di individuazione.
Ora, vediamo, in che consiste l’individuazione. Lo si è detto poco fa; in ciò, che lo stato di semplice aggregato di parti separabili cessa, che sorge un superiore principio che si riafferma su di esse, le subordina a sé, le fa obbedire a una determinata legge. E più il dominio in questo principio superiore è perfetto, più è alta l’individuazione. Quindi come l’unità fisica domina i vari elementi atomici, l’unità vegetale domina i vari elementi fisici e così via, l’unità dell’«individuo sociale» dominerà quella dei singoli; incorporata in un essere (come lo deve, se non si vogliono «reificare» scolasticamente le astrazioni) questi non sarà il rappresentante dei molti, bensì il dominatore dei molti. Se vi deve essere una differenza fra il punto di partenza e il punto di arrivo del processo tracciato, se questo deve essere qualcosa di più che un enorme circolo vizioso, tale differenza non può dunque consistere che in ciò: che l’Io dell’inizio, confuso nei molti, era in un certo senso l’umanità, indistintamente, misticamente; ma alla fine sarà invece il Signore dell’umanità.
Il Di Cesarò mi ha ribattuto che questa idea gli sembrava così assurda, come quella di una parte del corpo che volesse farsi signora dello stesso organismo. Ma questa assurdità non è che apparente e si basa su una imprecisione di termini; cioè sul fatto di continuare a chiamare uomo colui che, come dominatore degli uomini, non sarebbe più uomo, ma un essere di un livello superiore (i tipi di un Buddha, di un Cristo, ecc. cominciano a darci una suggestione di qualcosa di simile); come tale, egli non sarebbe mano che vuole essere tutto il corpo, bensì l’unità del corpo che comprende la mano e tutto il resto. Come idealmente si può concepire che quel grado di unità a cui corrisponde l’individuo minerale passi a quel grado superiore, in cui gli elementi minerali si fanno mezzi subordinati all’individuo vegetale, e così via, analogamente si può pensare ad un trapasso di quel grado di unità, che è l’uomo, ad un grado superiore, in cui gli uomini risultano come elementi dominati. Resterebbe la questione di definire dove sarà da vedersi una tale superiore unità e la via per giungervi – ma ciò porta ad un altro campo, che non è il caso di trattare qui, e per cui rimando ad altri miei scritti.
Analizzando il democratismo teleologico, resta da dire qualcosa sul democratismo statistico; il quale si definisce nel concetto di maggioranza. Respinta l’ipostasi del popolo come un essere a sé, coerente, uno, razionale e con volontà propria; respinta l’idea di una molteplicità discorde delle volontà organizzabile in potenza ma in atto solamente per opera di esseri che da essa emergono e che a sé la subordinano; resta da intendere la «volontà del popolo» statisticamente, ossia come ciò che risulta naturalmente dalla combinazione di vari elementi omogenei. Ora da che cosa sarà determinata la forma di una tale combinazione? Una armonia, una perfetta concordanza di tutte le volontà è un’astrazione non riscontrabile, in alcun luogo: vi sono – più o meno, ma sempre – divergenze, dissidi, attriti in tutti i popoli. Nell’ultima delle ipotesi, ci si mostri uno stato che non abbia i suoi «delinquenti». Posto dunque il «popolo» come forze o insiemi di forze in giuoco le une sulle altre, da che cosa sarà determinata la prevalenza, quindi l’elezione di certi governanti e l’adesione ad un certo regime a preferenza di altri?
I casi sono due: o si ammette un criterio qualitativo – ed allora la premessa democratica viene meno; ovvero il criterio sarà quantitativo, quello della maggioranza numerica: non deciderà la superiorità o maggior forza di alcuni, ma il maggior numero; ed il riconoscimento del maggior numero sarà dunque il criterio della maggior forza, capacità, e superiorità degli eletti.
Tale il democratismo statistico. Esso evidentemente è fondato ed intelligibile solamente quando si ammetta il principio di eguaglianza dei molti. Il principio di eguaglianza – insieme a quello di libertà e fraternità – sta infatti a base di ogni dottrina democratica.
Ora un tale principio è ciò che vi può essere di più contestabile; e, si badi contestabile non soltanto di fatto, ma anche di diritto. L’ineguaglianza degli uomini è una cosa troppo evidente perché vi si debbano spendere parole. Non vi è bisogno, come fanno alcuni, di ricorrere alle dottrine evoluzionistiche. Basta soltanto aprire gli occhi, e guardare. Ma ecco che mi si ribatte: «Gli uomini sono disuguali, sia; ma ciò di fatto; non di diritto. Sono disuguali, ma non dovrebbero esserlo; la disuguaglianza è una ingiustizia – e ingiusto è quindi chi su di essa si basa». – Rispondo: questo è un parlare, «generoso» finché si voglia, ma non un pensare: perché il concetto di molti è invece logicamente contraddittorio con il concetto di «molti uguali». E mi spiego così.
Si tratta del principio leibniziano degli «indiscernibili»: un essere che fosse assolutamente identico ad un altro, sarebbe una sola e medesima cosa con questo.
Kant cercò di confutare un tale principio riferendosi allo spazio, in cui, secondo lui, vi possono essere cose uguali eppure distinte. Tuttavia la nozione scientifica di spazio respinge l’obiezione; giacché per essa nozione ogni punto è un valore diverso assunto dalla funzione del continuo quadrimensionale del Minkowski. Nel concetto di «molti» è dunque implicito quello una loro fondamentale diversità; dei «molti» uguali, assolutamente uguali, non sarebbero molti, ma uno, l’Uno di Parmenide. Voler l’uguaglianza dei molti è contraddizione in termini.
Un secondo argomento è tratto dal «principio di ragion sufficiente», che si può formulare così: «Per ogni cosa vi deve essere una ragione perché sia quella cosa e non un’altra». Ora un essere assolutamente uguale ad un altro sarebbe privo di ragione sufficiente: sarebbe una duplicazione affatto priva di significato. Da entrambi questi punti risulta dunque razionalmente fondato il concetto che i molti non solo sono disuguali, ma debbono anche esserlo. In conseguenza la quantità va trascesa nella qualità – ma, con la qualità, si impone un principio di gerarchia.
Nietzsche diceva che per lui incomprensibile non era tanto la sofferenza e la morte, quanto piuttosto la presenza della torbida, anonima, inerte moltitudine degli esseri inferiori. È questo un problema meritevole di profonda riflessione, dal quale si sbocca nella teodicea. Nietzsche, per conto suo, lo risolse con un’idea, che il superiore non essendo tale che di contro a un inferiore, il dominatore ha bisogno di una materia su cui esercitare la sua potenza. Posto il valore del dominatore, se ne deduce quindi la giustificazione dell’esistenza della massa degli inferiori, nel senso stesso che la volontà di una opera d’arte potrebbe giustificare l’esistenza di una materia grezza in cui prenda corpo. Coloro che respingono la soluzione nietzschiana, sono tenuti a cercarne un’altra con cui sostituirla, ché non si tratta di un sofisma, ma di una difficoltà reale e fondamentale.
Vari altri ostacoli incontra il democratismo statistico. Accenniamo soltanto alla contraddizione, del resto fatta rilevare già da molti nello stesso ambito politico, fra il principio di eguaglianza e quello da libertà. Se questa contraddizione non viene avvertita come tale, è perché si evita di pensare i concetti sino a fondo, ma si lasciano alla forma rozza propria all’uso volgare. La libertà, p. e., secondo la sua vera natura, è una bestia che non tollera addomesticamenti: essa è o non è, limitarla significa negarla. Ora il principio di eguaglianza implica il riconoscimento e il rispetto degli altri, implica dei doveri, quindi una limitazione, quindi una negazione della libertà
Libero – dicevano giustamente gli antichi orientali – è uno solo. Infatti la stessa idea di una limitazione che non proceda dall’esterno, ma da una legge o natura interna, la quale sarebbe identica in tutti gli uomini, non ha seria consistenza: non è che una legge perché sia interna cessi di essere legge e si trasformi in libertà – se mai, essa esprime una necessità più profonda. Altrimenti libera saremmo fondati a dire anche una pianta, giacché essa non ha fuori, ma dentro di sé la sua legge di crescita, legge però che le è data, che è quella e non un’altra, di contro a cui è passiva, che essa non può cambiare. Ammesso invece che la legge possa cambiare, che sia l’individuo stesso a darsela arbitrariamente, l’argomento esposto cade.
Si ricorrerà a criteri di convenienza e di utilità? Chi non vede quanto essi siano relativi? Bisogna infatti cominciare con il dire che cosa è utile, in rapporto a che e a chi. Vi è p. e. un margine di violenza che è ineliminabile in qualsiasi regime, per democratico che sia. È quella propria dell’autorità costituita, che importa un fisco, leggi civili e penali ecc. Questa violenza non la si chiama tale perché la si suppone conveniente all’utile generale. Ma chi lo definisce questo utile e chi fissa dunque i limiti che separano la «legalità» della violenza di una «tirannide»? Forse la massa stessa, con la instabilità e la ristrettezza del suo giudizio? Si torna alla difficoltà, già esposta al principio.
E quanto al numero, non bisogna farsi illusioni; occorre tener presente che ciò che quasi invariabilmente determina una «maggioranza», non è una autonoma volontà dei molti, bensì la potenza e la superiorità di persone che sanno attirarsela a sé, potenza di cui il maggior numero degli aderenti è soltanto la misura o l’eco. Così per il riconoscimento di un’opera d’arte: è il genio che si impone. Il numero è conseguenza, non causa. Il criterio statistico è dunque fondamentalmente astratto: bada agli effetti, non alle cause; esso potrebbe venire accettato senza conseguenze anche dalla dottrina opposta, che la causa del numero vede nell’individuo potente. E l’individuo potente può trascinare la folla dove vuole, può mandare in schegge tutte le norme mediocri, calcolate e tradizionali di utilità, di convenienza, di benessere generale. E la storia ce lo mostra, dovunque. Accesi dall’entusiasmo per un uomo, per un simbolo, per una idea, milioni di esseri hanno travolte le barriere della prudente normalità, si sono sacrificati, hanno arso, si sono distrutti.
Onde, in connessione, se non avessi tema di fare la fine di Dioniso, il dio sbranato, vorrei pormi il problema se, per avventura, il valore concreto del democratismo non risiedesse in ciò, che esso, dato il momento storico, si presenta come il migliore strumento attraverso cui si può riuscire a sottomettere la massa. In fatti un democratismo che non riuscisse, contraddirebbe apertamente sé stesso.
Ecco dunque un bel gruppo di elementi critici si cui chi vuole fondare idealmente il democratismo dovrebbe riflettere. Qui mi sono tenuto ad un lato negativo non tanto perché le idee che sul piano politico potrebbero seguire dalla mia filosofia non sono precisamente quelle dei democratici (Per carità! Non essere democratico ed essere fascista sono due cose diverse!), quanto piuttosto per dare una materia antitetica di contro a cui la dottrina democratica stessa possa definire e chiarificare sé stessa.
(«Lo Stato Democratico», 15 agosto 1925)