1. Weiss Kugel
Per chi ha la consuetudine del mondo dei ghiacciai, l’ascesa del Weiss-Kugel (Palla Bianca, m. 3860) in se stessa non costituisce nulla di speciale. Da un minuscolo rifugio italiano ormeggiato sulle ultime rocce si procede sui ghiacci in un lungo paziente giro arginato, che permette di evitare campi di enormi crepacci. Si raggiunge un passo, e da là si va diritti fin sulla cima, attraverso una pendenza forte, ma tecnicamente non difficile per lo stato favorevole delle nevi che permettono salda presa sia a scarpe ferrate che a ramponi e piccozze.
Esperienza nuova è stata invece la discesa per il versante austriaco, fatta così all’avventura, ché in questo deserto bianco poco giova l’orientamento che le carte possono offrire: e folate di nebbia nascondevano già in alto le culminazioni delle vette.
Verso Nord credevamo dunque, dopo ore di ascesa, di trovar dietro una nervatura rocciosa di nuova terra salda e sentiero, quando invece una strana natura fece apparizione: un mare di ghiaccio, una corrente solidificata di ghiaccio, mostruosa, quasi piana, non bianca ma bigia, di un bigio semi-splendente come piombo, distesa interminabilmente fra due costoni fatti non di terra o di rupi, ma di macigni, di scaglie di roccia, di sabbia, qui nere, là rossastre, là livide. E un silenzio mortale, una solitudine desertica, una assenza integrale di ogni specie di vita, di animazione, di pluritonalità. Unico, e uguale, un sotterraneo scorrere di acque.
Spesso dalle parole si affaccia istintivamente alla mente un loro contenuto indefinito, legato a misteriosi nessi di analogie. La parola che qui sorse fu: La Valle della Dannazione. Non so perché: questa natura sembra recare in sé qualcosa di maledetto, che non sarà rimosso per l’eternità. È come se queste roccie fossero state fulminate, spezzate e precipitate giù da altezze, per giacer cupe senza più speranze. E come se questa immensa corrente di ghiaccio una volta fosse stata viva ed ora fosse divenuta sincope grigia, monotonia senza nome, chiarezza spenta in plumbea solidità.
E queste confuse analogie si continueranno in ancora un elemento; interminabilità, quasi perennità. È ben lungo tempo che camminiamo sul tetro ghiaccio, spiando un termine all’orizzonte, e sempre di nuovo ci si ripresenta ancora, uguale, inesorabile, senza variazioni, la stessa natura fra le due coste di roccia maledetta. Dall’ultimo rifugio, dieci ore abbiamo ormai fatte, di ascesa e di cammino, ed ora i sacchi ci spossano insopportabilmente le spalle, le forze qua e là vacillano. Ma non vi è che andare ancora avanti, senza speranze di un appoggio né per l’interno né per l’esterno, per questa Valle della Dannazione, prima che sera scenda. Ed è appunto fra le ultime luci, semiebbri per la fatica e la ricerca, che il grigio ghiaccio al fine termina, generando da sotto una grande corrente di acqua giallastra e turbinosa che cerca via e sfogo fra macigni e detriti morenici terminali. La seguiamo e, infine, in alto sopra una lastra, il primo e unico segno di cosa umana: una facciata lineare con un misto fra stile bavarese e stile moderno e che per un’associazione assurda mi richiama una novella di Edgar Poe: la Casa Usher, quella della rovina. Ma questa è l’ultima suggestione. Qui è lo Hochjoch-Hospiz, il primo rifugio alpino austriaco con persone cordiali, nutrimento e riposo. E l’esperienza della «Valle della Dannazione» scende lentamente nella sub-coscienza.
2. Ortler
La sera precedente era stata tempestosa. All’alba, al rifugio Payer, squarci di azzurro fra ondate di nubi veloci ci avevano dato speranza. E si è partiti sul ghiaccio, per raggiungere la cima massima dell’Ortler. Ma alla cima Tabaretta (segnacolo scheletrico, avanzi di una baracca schiantata dal ghiaccio) è ritornata nebbia, vento, tempesta. Si è andati oltre, malgrado tutto, perché altre cordate ci sono a lato, con guide che per via di fugaci prospettive di crepacci e di scracchi riescono ad orizzontarsi ed a trovare la direzione in mezzo a cieli e nevi divenuti una unica cosa omogenea e biancastra.
Così, lentamente, verso l’alto, arrestandoci quando la violenza delle raffiche minaccia di strapparci da terra e di toglierci il respiro; con abiti, guantoni e passamontagna che, percossi da mille atomi turbinanti, son quasi divenuti cose rigide incrostate di ghiaccio; con faticoso ritmo per la neve fresca in cui si sprofonda a mezza gamba e che contende un punto solido di appoggio pel piede nei pendii più ripidi.
Infine, la vetta, ciò che deve essere la vetta, poiché con questo tempo il luogo equivale a qualunque del ghiacciaio. Poi, subito giù, perché si gela. Le nostre traccie sono istantaneamente scomparse, in qualche minuto le folate le hanno colmate e distrutte. In tre che sono, anche le guide delle altre cordate non riescono a trovare la via. Si vedono le loro forme confuse tentar qua e là per il terreno con le piccozze, per non finire in qualche baratro.
Ma ad un tratto si è verificata come una trasfigurazione, una visione, che non saprebbe esser dimenticata né resa con le parole. Dopo una raffica più violenta, una chiarità si è manifestata tutta d’intorno, come uno stupore, senza lasciar vedere cielo o sole, creando solo qualcosa di diafano, di aereo, di immateriale. E in quest’ambiente correvano ondate di luce, silenziosamente, come brividi o respiri, in un tramutar rapido da cosa animata. Le figure delle altre cordate, forme sospese vaganti, prive di ombra, prive di peso. Ricordo ellenico divenuto evidenza di sensazioni: come nell’antica dottrina, corpi incorporei – pneusomata – vaganti sui campi di luci, sulle terre materiali dei beati e degli eroi.
Visione di pochi istanti. Poi nebbie e raffiche, di nuovo. Ed infine ritorno alla terra, all’elemento solido, l’«infero», alle cose fatte di durezza corruttibile sotto la monotona luce quotidiana.
3. Oberwalder-Hütte (Gross-Glockner)
Riscende calma la sera sul ghiaccio e su questa isola-rupe ancorata nel suo mezzo, ove sta il rifugio. Da esso, risuonano canti, rilucono luci. Io vado avanti solo, oltre la roccia, sulle nevi, sulla pista delle nevi verso il Wiesbach-Horn.
Che ritmi di accoratezza, di irriducibile nostalgia, di evasioni verso l’indefinito ed il senza forma per un’anima che non conoscesse difesa! Un nuovo deserto, un nuovo silenzio. Dietro, i vapori vespertini delle valli lasciano emergere solo le vette gelate che, illuminate dall’estremo riverbero, son le sole cose in cielo che trattengono la luce, come nature disincarnate vicine e lontane ad un tempo quali ricordi, quali lente apparizioni, quali miti. Ed innanzi, un grigio-verde d’acqua forte o d’acqua marina, in cui il cielo e nevi appena si differenziano: e la pista che sale in alto, appena visibile, è l’unico ritmo, è come la traccia di un deserto dell’anima, di una solitudine beata e smarrente ad un tempo. Andare, andare. Tutto è lontano, tutto è passato, tutto è dimenticato. Scende santa la notte. Tenuità, impalpabile semplificazione dell’anima e delle cose.
Finché, in alto, in siderea fioritura, le prime stelle.
(«Corriere Padano», 6 settembre 1933)