“Fiamma, mostraci il cammino da cui non c’è più ritorno” (M. Heidegger)
“Fire walk with me” (D. Lynch)
Avvertenza
Ciò che scriviamo non lo scriviamo da soli.
Nello spirito delle lettere, i fantasmi che abitano la pagina sono una comunità.
Una comunità che ha i suoi diritti. I diritti della morte sulla vita. I diritti della filosofia sulla critica. Fossimo filosofi avremmo un pensiero unico. Siamo invece scrittori di filosofia. Ma compensiamo con delle ossessioni. E. e B. presiedono a questo sacrificio di lettere. Possiamo quindi (un «quindi» troppo rapido, ammettiamolo) renderci complici dicendo noi.
Prenome plurale o comunità dei Soli.
Abbiamo alluso al sacrificio. Più tardi, ne riveleremo la gioia e quanto godiamo a scrivere di queste trasgressioni. Ma ora, per niente al mondo abbandoneremo il tono patetico di questo invito a chiudere Il libro. Fosse anche solo il nostro.
E. e B.: love letters
Ciò che mi obbliga a scrivere, penso, è la paura di non diventare pazzo [1].
In quel non si impiglia tutta la nostra distanza dalla mistica (ebbene sì, Messier Kojève!) e si pro-getta una possibile àncora a una cruda lezione di realtà. Come se la mistica non fosse reale. E crudele [2].
E. e B., come gli occhi del nostro sguardo, non possono vedersi.
Questo libro è dedicato alla loro amicizia. A due assalti, egualmente feroci, alla vita.
Levare al cielo per dare alla terra. Pure, perseguire in un unico movimento ero(t)ico il fuoco d’amore che incenerisce queste pagine significa morire. Sul corpo di quella voce che sospende il dire e continuamente s’offre come relitto abbandonato ai margini della vita. Quasi potesse uscire dal silenzio, la parola, e vendicarsi della violenza che strappa al significante il sasso che la ucciderà (Lacan).
Ogni testo ha un carattere terapeutico. Il presente, l’abbiamo scritto per nominare le voci che ci attraversano. Se qualcuno può dire che quest’esperienza è anche la sua, ridendo, come quando naufraga una natura tragica, possiamo ridere insieme: “Naufragium feci: bene navigavi” [3].
Non interpreteremo, non dovendosi trovare un senso della parola ma affidarne il compito. Ascolteremo come si ascolta la musica. La melodia totalitaria contro il rumore ermeneutico, che ha fatto della procedura metonimica l’inesausto motore del suo procedere a vista: perdere la parte per acquisire il tutto. In ciò svendendo la singolarità irriducibile dei significanti.
Gettare su E. e B. una luce sinistra è mistificare la distanza nella prossimità di una amicizia stellare [4]. Fratelli del sacro impuro, ebbero della politica la visione terribile di un sogno che non ci appartiene. “Fascista” l’uno, “comunista” l’altro. E ridiamo, perché tutti e nessuno sa chi siano, l’uno e l’altro. La fatica del concetto non tollera le limitazioni dell’ignavia. Verità di cui non siamo origine. E una dialettica dei castrati non raccoglierà l’energia della contraddizione. Presi dal vortice di un pensiero, i due occhi che vogliamo contemplare rivelano un’unica visione: la comunità della morte. Non sappiamo se E. e B. lavorarono per il “male assoluto”5. Tuttavia la luce del loro riconoscimento non sarà quella di una notte in cui tutte le camicie sono nere. Ma una luce che permetterà di vedere chiaramente, la notte. E mai le sart[r]e del concetto prenderanno la piega di questo infinito rammemoramento. Un fascio che attraverso i secoli lega i cuori degli uomini in un gesto innominabile che la punta di due vite acuminate, come pugnali d’ossidiana, pratica inesorabile. Quelli che negli anni ci hanno ri-messo la testa sono tanti. Siamo sinceri, evochiamo un’idea della ghigliottina: pura metafisica. Lo sussurriamo allo spirito dei tempi che soffia dove vuole. Anarca dell’aria. Una eccentricità sistematico-estatica al servizio dell’io, della sua messa a morte, agita le iperboli filosofiche di E. e B. riflettendosi sulle loro visioni.
Acéphale o Individuo Assoluto.
O non si tratta dell’esclusione di identità? Inseguire, nei gu(a)sti di un secolo ebbro di sterminio, l’errare del pensiero e falsare le differenze nella “banalità del male”. È troppo persino per la nostra felicità. A un passo dal trionfo c’è l’annientamento. Eterogenesi della fine. Mentre rifiutiamo con comica baldanza la trasformazione in essere. Viviamo nel contagio di uomini strani la cui sola vista ci suscita ribrezzo. Tenere la distanza è il principio primo di una filosofia aristocratica.
Chi vuol salvare la propria anima la salverà.
E poi? I sogni mediocri si realizzano. La sovranità, quella di una filosofia che il buon senso continua a relegare nell’inferno di una praticità incompresa, è la vanità stessa di cui forse un giorno moriremo. Non toglieremo la maschera a nessuno. Oggi che non c’è più niente.
“C’è qualcosa che possa ancora assumere un significato?” [6].
E. e B. o il gemellaggio della differenza
C’è una vischiosità in questo parto del pensiero gemellare che esige la morte in culla.
Una resistenza di doppi falsificati da una tensione all’origine che, espropriandoli del loro Io, li sacrifica assenti. Doppelgänger della fine.
Precipitare il movimento di questi atti in una indeterminazione essenziale, come nel fuoco di uno specchio ustorio, e osservarne la specularità schivando, nel caso, l’imprevedibile traiettoria del dono proprio là dove è la cenere (Derrida). Non chiediamo di più alla nostra mancanza, perché la ferita faccia capo alla testa: il rivoltarsi bifronte di un esercizio ai confini del possibile.
Il Senza Testa è la semplicità potente dell’Individuo Assoluto. Lo stesso avvertimento contro natura: mostruosi nell’identità altra del nulla. Vita, non più asservita ai demoni della continenza. La sympatheia accecante di solipsismo ed eterologia gioca (chance) l’identità della sua stessa differenza. Quasi uno scacco atroce senza partita, come la regalità di un “pezzo” che non si può più toccare e se ne sta là (dasein) comicamente senz’uso.
La perfezione di una donna senza vagina.
La sessualità ossessiva della bataille evoliana è opera della morte. Una rissa di corpi in de-composizione che si estenuano nella tratta infeconda dei significanti. E comunicano attraverso la ferita. Radice del nulla: tagliata, come la testa dell’uomo, per non fruttificare gli sviluppi maligni dell’utile. Germinazione dell’impotenza. Nella sovranità di un atto che de-crea perché squalificato ontologicamente come “amore del male”. Il pugnale gnostico mostra la sua punta acuminata in molti luoghi dell’opera di questi due nemici del mondo. Ma l’asfittica esegesi di cui sono vittime non vede, in loro, il sigillo dell’ingiustizia illuminata. Il verdetto di identità della TABULA SMARAGDINA HERMETIS:
“Ciò che è in alto è come ciò che è in basso, e ciò che è in basso è come ciò che è in alto, per le meraviglie di una cosa unica”.
La comunità della morte. Oppure… E. e B. sono figure geroglifiche: simboli di una oscura ospitalità da cogliere nell’impossibile di una semplice presa. E quanto del loro Opus ha il gusto della nigredo e porta le signature della vittoria della vita NELLA morte?
L’Uomo totale di E. e B. nella sua vacanza metapolitica è la sfigurata complementarietà, da destra e da sinistra, di quel principio che all’uomo manca. Il principio della deficienza e la deficienza del principio. Una endiadi che, riconosciuta, è già copula metafisica. Nell’origine del valore si compie allora – un allora caoticamente imposto non ne dubitiamo e confessandolo subito ce ne liberiamo – il salto del ricordo. Distruzione della trascendenza.
L’impossibile si dà in questo incedere ritmato dalla crisi che, come in una regia dell’orrore, si ferma solo per riprenderne l’agonia, l’angoscia, la solitudine. E farne la trama di una disfatta che si mostra esclusivamente nell’incontro con un’altra ferita. Sempre la stessa, aperta per gemere insieme in quella notte che costringe a vegliare – l’infermità dell’esistenza. E questo incedere, questo procedere nell’incertezza, è marginalità, slittamento, buco nero del linguaggio, scivolata, gaffe della parola. B. lo declina narrativamente in racconti d’orrore quotidiano che d’orrore hanno solo il quotidiano o la sua rimozione. E. spalanca invece scenari oltreumani fecondati dalla stessa rivolta contro quel mondo che è sempre. La nudità dell’uomo e il servaggio senza fine davanti alla sua maschera7. La dannazione dell’essere – “fuori fuoco”.
Mentre se sapessimo recitare la nostra parte, la nostra “parte maledetta”… Dovremmo fermarci.
E. e B. o un amore plutonico
Un incontro nella notte. Il tempo dell’apertura.
Un incontro della notte. Lo spazio della distanza.
In questo buio spazio-temporale oscilla l’estraneità di un riconoscimento filosofico esemplare. Testimonianza-resa in ginocchio davanti al dio degli sconfitti.
Mediare l’immediato: nascere poeti per non morire.
Fanatici danzatori dell’amore che uccide.
Le vite di E. e B. riflesse nell’iride densa dei nostri odî e amori. “Badate che non vi schiacci una statua” (Nietzsche).
La loro notte dipinta con i nostri colori. Non conosciamo una violenza più grande.
Pre-eco di un equivoco. Conosciamo l’instancabile refrain dei vincolati: arbitrario! soggettivo! fantasioso!
Quando la filosofia sarà sottratta all’università e restituita al genio (Sgalambro)… Basta. E. e B. sono una comunità nella loro impossibile comunione o sacrificio.
Non c’è Storia da raccontare.
Il nostro lavoro non ha valore. Come un fiore su una tomba. Il resto è silenzio.
O preghiera.
La prima volta
Il primo e unico contatto tra E. e B. si consuma nel segno dell’eros: nodo dei distinti. E. cita B. nel suo Metafisica del Sesso a proposito del marchese de Sade:
“Nel «divino marchese», in de Sade, poi, nulla più è divino, i lontani riflessi di una tale pericolosa sapienza appaiono quanto mai distorti e satanizzati. Anche dove sembra aver intuito soprattutto la distruzione di ogni limite, non viene celebrato che una specie di superomismo tetro, senza luce: commentatori moderni, quali G. Bataille e Maurice Blanchot, hanno saputo solo parlare di una «solitudine sovrana» quando l’uomo di de Sade porta all’apice inesorabilmente tutto ciò che è violenza e distruzione. Non per questo la connessione specifica, che in de Sade si stabilisce, fra la mistica della negazione o della distruzione e la sfera sessuale, è meno significativa”.
Quale “pericolosa sapienza”? Qui E. pensa alla “Via della Mano Sinistra”, stretta anche da B. Ci arriveremo. Prima, un cenno ad un (mancato) incontro che avrebbe reso E. e B. complici, insieme ad altre personalità della cultura internazionale, di un affascinante progetto editoriale: Eros e Magia. Libro che non è mai apparso per la Longanesi in una collana intitolata “Enciclopedia dell’Eros”, ideata da Boris de Rachewiltz. L’intento era quello di presentare una visione del mondo antico pagano e orientale. Tra i contatti presi: G. Bataille, M. Leiris e R. Bazlen ma non se ne fece nulla per motivi che a noi non interessano. Nostro interesse era solo stabilire una comunicazione per ora soltanto bibliografica ma significativa. C’è sempre una presenza negli appuntamenti mancati. Per questo li manchiamo.
Eros e Magia: il nostro libro avrebbe potuto intitolarsi così. Non per questo lo scriviamo con le mani di E. e B. Con le loro “sinistre”, per la precisione.
E. e B. sono, per noi, casi umani. La disperazione della loro vita ha qualcosa di eroico.
La seduzione: se non custodiamo l’amicizia, così come si tiene un segreto, quel «qualcosa» finirà di corrompere in noi un corrotto.
La tensione del limite, escatologica in E. e scatologica in B (amputata la e, come la testa, ma è un eccesso della ghigliottina) urla la stesso strazio della liberazione. Sappiamo di giocare col fuoco. Ma l’accusa infamante di voler scrivere un libro pescando nel torbido di una incomprensione epocale, E. e B. appunto, ha per noi il suono di un’inappellabile assoluzione.
La liberazione è un processo.
Dannare capre e cavoli: e sia pure. Tuttavia vogliamo riflettere un raggio di incomprensione da un’ottica fanaticamente inclusiva.
Trascendenza e trashendenza, forma e informe, dio e verme. Ascesa e caduta.
L’eccesso della ragione è il capo di questo nostro lavoro. Intimamente decostruttivo, oscillante e, dobbiamo ripeterlo, privo di valore.
Se cadere in alto si dà come l’impossibile, noi ci rifiutiamo di assumere una prospettiva che non sia cattiva. Nel rovescio di due monete viventi ormai fuori corso di-lapideremo allora tutto il nostro patrimonio teoretico perché, pur nella confusione, germini lo scambio che ci costituisce viventi. Non c’è dubbio: pagheremo la nostra colpa.
B. è una caduta senza fondo. Triangolo basso o regno della donna o acqua. E. è un’ascesa senza limite. Triangolo alto o regno dell’uomo o fuoco. Unità: la stella della dissoluzione.
Significato, ma è solo ironia: ormai solo un io ci può salvare.
Parodiare la resa heideggeriana in affermazione. Un sistema della gratutità s-fondato da un bagliore immenso: cecità o oblio o notte della redenzione.
Buio mistico.
Non ci nascondiamo: la Tradizione è la custodia dell’empietà.
Il logorio rovinoso del tempo suggerisce all’orecchio bucato l’ultima delle rivoluzioni: distillare lentamente il suicidio della ragione sull’altare delle bassezze gnostiche. Il tempo è sempre lo stesso?
L’adesione furiosa di E. e B. al loro tempo è quella di una sconfitta con cui misurare il coraggio dell’inattualità. Essere talmente lucidi da portare l’orrore davanti agli occhi, immediatamente davanti fino a farne i propri occhi. Vedere attraverso l’orrore.
Fino a non vedere più.
Oggi che siamo al “si salvi chi può”. Chi non può è già salvo.
***
Ci rimprovereranno, tempo perso, di non aver messo la “giusta distanza” – qualunque cosa significhi – tra noi e il soggetto del nostro studio. E quale è, o chi è, la differenza?
E se il soggetto è l’amicizia, come parlare di un amico?
Possiamo parlare con un amico o, quando l’amico non c’è più – con quella sua presenza che permette di prendere la distanza tra lui e noi – parlare come lui. Prendere il suo posto, impossibile, accanto a noi. E chiedere perdono.
Il perdono dell’amicizia.
Slittamento del genitivo su cui anche noi, lo promettiamo, scivoleremo spesso.
+
Libro di filosofia, triste elenco di ossessioni. Pura patologia. Diario intimo. Parodia mistica. Ricette di stupidità. Non lo sappiamo. Nella trasversalità occulta che agita i diversi dominî della conoscenza non abbiamo scritto nient’altro che noi.
* Devo questa immagine a Caterina, mia Luce sinistra.
[1] Cfr. G. Bataille, Su Nietzsche, Edizioni SE, Milano, 1994, p. 15: “Ciò che mi obbliga a scrivere, penso, è la paura di diventar pazzo”.
[2] Cfr. A. Kojève, Lettere a Georges Bataille, in Il silenzio della tirannide, Adelphi, Milano, 2004, p. 224: “[…] perché si scrive? Lei solleva il problema […]. Senza, a mio parere, risolverlo. Poiché essere in comunione è comunicare. Ma è possibile comunicare il nulla, cioè ─ detto in maniera meno pittoresca ─ è possibile comunicare senza comunicare nulla? Certo i mistici (se non sono già pazzi o destinati a diventarlo) si associano. Ma la loro associazione è una setta che viene denominata religiosa, una associazione fondata sul silenzio o retta dal silenzio […]. Scrivono, anche, come lei stesso scrive. Perché? Io penso che in quanto mistici non abbiano nessuna ragione di farlo. Ma penso anche che un mistico che scrive (e di conseguenza non è pazzo, poiché suppongo che il suo scritto abbia un senso <pertinente>) non sia solamente un mistico. È anche un «uomo normale» con tutta la sua dialettica dell’Anerkennen. È per questa ragione che scrive. Ed è per questo che nei libri mistici si trova (a margine del silenzio verbalizzato da un discorso privo di senso) un contenuto comprensibile: e in particolare ─ spesso ─ filosofico: è questo il suo caso”. La necessità di una così lunga citazione, e altre ne seguiranno, non ha bisogno di spiegazioni. Questa citazione è il (senza) centro del nostro lavoro e non esitiamo a sottolineare che tutto quanto andiamo scrivendo è quel che resta del campo, spazzato dal diluvio di queste parole Kojèviane, che andiamo seminando. Niente più di una forma del silenzio. Del silenzio della tirannide.
[3] Cfr. F. Nietzsche: “«Vedere affondare le nature tragiche e poterne ridere, malgrado la profonda comprensione, l’emozione e la simpatia che si provano, questo è divino» (1882-1884; citato in Volontà di potenza)”, citato in G. Bataille, Su Nietzsche, Edizioni SE, Milano, 1994, p. 202. E ancora: “«La mia prima soluzione: il piacere tragico di veder affondare ciò che esiste di più alto e di migliore (perché lo si considera troppo limitato in confronto al Tutto); ma questo è solo un modo mistico di presentire un ‘bene’ superiore. La mia ultima soluzione: il bene supremo ed il male supremo sono identici» (1884-1885; citato in Volontà di potenza)”, ivi, pp. 202-203.
[4] L’espressione è di F. Nietzsche, La gaia scienza e Idilli di Messina, Adelphi, Milano, 2003, p. 201, § 279: “Amicizia stellare. Eravamo amici e ci siamo diventati estranei. Ma è giusto così e non vogliamo dissimularci e mettere in ombra questo come se dovessimo vergognarcene. Noi siamo due navi, ognuna delle quali ha la sua meta e la sua rotta; possiamo benissimo incrociarci e celebrare una festa tra di noi, come abbiamo fatto ─ allora i due bravi vascelli se ne stavano così placidamente all’àncora in uno stesso porto e sotto uno stesso sole, che avevano tutta l’aria di essere già alla meta, una meta che era stata la stessa per tutti e due. Ma proprio allora l’onnipossente violenza del nostro compito ci spinse di nuovo l’uno lontano dall’altro , in diversi mari e zone di sole e forse non ci rivedremo mai ─ forse potrà anche darsi che ci si veda, ma senza riconoscersi: i diversi mari e i soli ci hanno mutati! Che ci dovessimo diventare estranei è la legge incombente su noi: ma appunto per questo dobbiamo ispirarci una maggiore venerazione! Appunto per questo il pensiero della nostra trascorsa amicizia deve diventare più sacro! Esiste verosimilmente un’immensa invisibile curva e orbita siderale, in cui le diverse vie e mete potrebbero essere intese quali esigui tratti di strada, innalziamoci a questo pensiero!Ma la nostra vita è troppo breve, troppo scarsa la nostra facoltà visiva per poter esser qualcosa di più che amici nel senso di quella elevata possibilità. ─ E così vogliamo credere alla nostra amicizia stellare, anche se dovessimo essere terrestri nemici l’un l’altro”.
[5] Pensiamo alla sentenza formulata da Walter Benjamin contro “Acéphale”: “Vous Travaillez pour le fascisme” (testimonianza del “congiurato” P. Klossowski, in Le Monde del 31 maggio 1969).
[6] Cfr. G. Bataille, La condizione del peccato, Millepiani, Milano, 2002, p. 90.
[7] Questa congiunzione non è una copula solo per un nostro eccesso di esitazione. Così è sempre.