Augusto Del Noce, una delle voci più stimolanti del pensiero filosofico italiano della seconda metà del secolo XX, nell’introduzione al suo “Giovanni Gentile. Per una interpretazione filosofica della storia contemporanea”, si chiese a proposito dell’attualismo: “Questa filosofia rappresenta oggi un passato? Chi scrive ne è convinto; purché si aggiunga che oggi è un passato anche quello che può essere detto il mito del 1945; secondo il quale tale neoidealismo sarebbe stato il simbolo dell’isolamento….dell’Italia rispetto alla cultura mondiale”.[1] Ecco, ci sembra che queste parole del pensatore cattolico, siano sufficienti a far comprendere le ragioni che ci hanno indotto ad approfondire due esperienze, al contempo speculative ed esistenziali, quali quelle di Julius Evola e di Andrea Emo, maturate all’interno di un serrato confronto con i presupposti del gentilianesimo. Inutile dire che, lungo questo percorso teoretico, i due colsero i limiti di tale corrente di pensiero, ma anche la straordinaria anticipazione in essa realizzata, di tematiche che il pensiero europeo avrebbe sviluppato in seguito. Per questo, lo studio di Evola e di Emo, crediamo possa far cadere, in termini definitivi, un luogo comune della storiografia filosofica italiana, fatto proprio, in particolare da Bobbio e Cantoni, secondo i quali, solo con la fine della egemonia culturale del neoidealismo, l’Italia si sarebbe nuovamente aperta all’Europa e alla sua benefica influenza.[2] Al contrario, addentrarsi criticamente nelle problematiche più tipiche dell’attualismo, forma coerente e classica di immanentismo, al fine di superarne il confine costitutivo, quello di proposta speculativa che si realizza e chiude nell’ambito meramente gnoseologico, consente di rilevare il carattere transpolitico della storia contemporanea, e di comprendere in modo essenziale, quella “guerra civile europea”, i cui esiti non sono stati definitivamente assorbiti ancora oggi.[3] D’altro lato, essendo stata quella dell’attualismo, semplicemente la cultura che Evola ed Emo incontrarono sulla loro strada, all’epoca della formazione giovanile, le scorie hegeliane furono ben presto un ricordo per il loro pensiero maturo. I loro sistemi hanno, infatti, assunto un carattere unico nel panorama italiano, che riteniamo effettivamente corretto definire con il termine transattualismo. Insomma, muovendo da Gentile, essi vanno oltre Gentile.[4] Si tratta, sotto il profilo storico-filosofico, di un tentativo epigonale e inaugurale al medesimo tempo. Epigonale, in quanto le filosofie di Evola e Emo rappresentano un ultimo, estremo tentativo di superare l’abbraccio hegeliano, una sorta di ultimo anello nel processo di dissoluzione dell’idealismo, secondo la linea ermeneutica indicata da Karl Löwith. Mentre, nello stesso tempo, il nucleo vitale del loro pensiero, ci costringe, per usare un’espressione di Cacciari: “…a stare sul portante passato sull’Immemorabile” e, in forza di ciò, in quanto filosofie dell’αρχη, esse sorgono in un colloquio in attesa degli ad-venienti, come filosofie future.[5] In ogni caso, entrambi, fino ai loro ultimi giorni di vita, svilupparono un visione del mondo in cui la teoresi si faceva immediatamente prassi, e in cui, soprattutto, si presentava l’inscindibile unità del filosofo con il riformatore religioso e politico. In questa propensione totalizzante deve ravvisarsi il loro maggior debito nei confronti di Gentile, il quale portò a estrema coerenza il senso del Risorgimento come Restaurazione creatrice, il cui realizzarsi, in termini storici definitivi, si sarebbe avuto con l’esperienza fascista. D’altro lato, però, la cultura che Evola ed Emo incontrano, e di cui si fecero testimoni, per riformare e/o superare il neoidealismo, è ascrivibile alla linea schopenhaueriano – nietzschiana, con le sue aperture alla Grecia del pensiero tragico e anche all’Oriente e, in particolare, per Emo, al recupero di certo neoplatonismo e di certi sviluppi della mistica tedesca, quella di Meister Ekhart e di Böhme in primis, che farà sentire la sua risonante eco fino alla ontologia di Heidegger. Per Evola, sono così Nietzsche, Weininger e Michelstaedter a dare senso a Cartesio, Kant ed Hegel. Evola ed Emo costruiscono una via filosofica che: “porta a moderna compiutezza quella negazione nichilistica che è presente in forma potenziale nelle categorie dell’idealismo, ma che i più (tra i critici) non avvertono”.[6] Nelle brevi pagine che seguono, tenteremo di mostrare, perciò, non solo l’assonanza e la corrispondenza delle proposte di questi due autori, cosa che finora ha tentato, sia pure marginalmente solo Giovanni Damiano, ma proveremo a dar contezza di come la scoperta del nulla, esperita in entrambi sotto il segno di Dioniso, abbia rappresentato un momento significativo della pars construens delle loro filosofie. Cosa che, fondamentalmente, li ha resi dei poietes, in senso etimologico e superiore, cioè latori di un fare che realizza uno stile, di vita innanzitutto, ma anche estetico e politico. Per questo, la categoria che li accomuna, nel loro radicale antimodernismo, nel loro istintivo, ma meditato ademocratismo, è quella dell’imperdonabilità. Imperdonabili, lo sono sicuramente stati, nel senso che alla parola, è stato attribuito da una vera maestra di stile che Emo, peraltro, amò intellettualmente molto, Cristina Campo. La scrittrice individuò nella creatività, nella ricerca della perfezione,l’unico strumento, di fronte al nulla e alla morte, per porre in forma il mondo.[7] L’attimo fatale, in cui la si consegue e realizza, qualifica un’intera esistenza. Per questo, il tradere di Evola ed Emo, ha il carattere del “sempre possibile”, dell’apertura, e non può essere rinchiuso nei confini di una esegesi letterale e meramente scolastica. Allo scopo, è necessario muovere dalla presentazione della loro riforma dell’attualismo che, dato lo spazio concesso ad una relazione, proveremo a sintetizzare.[8]
Io, nulla e libertà nella filosofia di Evola
Riteniamo che Guido Calogero abbia, con chiarezza, messo in luce il senso della filosofia evoliana quando scrisse: “Pochi come Evola…hanno compreso con tanta nettezza come la più moderna soluzione idealista del problema dell’essere e del conoscere esiga la totale, integrale, incondizionata negazione di ogni realtà ed oggettività di fronte alla consapevolezza dell’io… e come, quindi, nell’invalicabile ambito di tale consapevolezza, quella resistenza e stabilità delle cose, che genera… l’idea della loro realtà, non serbi più alcun significato né ontologico, né gnoseologico e possa essere spiegato solo in sede di filosofia della pratica”.[9] Cosa ci dice Calogero? Ci dice che Evola rende esplicito ciò che, nell’idealismo, era semplicemente implicito e che, già nel 1799, F. H. Jacobi, in una lettera a Fichte, aveva posto come carattere essenziale di ogni idealismo: il nichilismo.[10] Evola scrive: “La cultura moderna ha tagliato tutti i ponti dietro all’individuo, se questi deve ancora vivere, occorre che tragga da sé la sua vita; se un punto fermo deve esistere, solo il suo io deve essere un tale”.[11] Muovendo da ciò, nei primi tormentati decenni del secolo XX, più precisamente tra il 1917 e il 1924, Evola costruisce il proprio sistema filosofico. La sua proposta va letta come tentativo di rinsaldare, in unità sintetica, essere e pensiero, idea e natura, teoria e prassi, dopo aver constatato la sincope della filosofia neoidealista, che aveva realizzato tutto ciò: “..sul piano astratto, speculativo, dissociandosi dall’individuo reale, dalla totalità vivente della persona”.[12] L’idealismo magico invita chi sia in grado di corrispondergli, a profittare delle “aperture” che il nichilismo dispiegato può consentire, al fine di intraprendere un percorso, di vita e di pensiero, teso alla realizzazione della libertà incondizionata. Chi riesca a tanto è individuo assoluto, cioè slegato, sciolto, libero dall’entificazione. Quali, quindi le tappe che conducono a ciò? E, soprattutto, cos’è la libertà? In cosa deve essere individuato il suo ubi consistam? Per rispondere a queste domande, riteniamo indispensabile, non solo far riferimento alle opere più studiate dell’Evola di quegli anni, ma in particolare a L’Individuo e il divenire del mondo che, come si sa, raccoglie due scritti evoliani del 1925 e nel quale, in termini estremamente chiari e sintetici, il pensatore risponde ai quesiti che noi stessi ci siamo posti.[13] Qui, vengono presentate le vicissitudini del percorso realizzatore, a partire da una prima fase, che è quella in cui l’io vive: “come in un sogno: egli non è ancora un’autocoscienza, né un principio autonomo d’azione”.[14] Evola presenta il bruto fatto dell’esistenza, il nostro “esser-là” (dasein), quale scaturigine dall’αρχη, e cioè come ex-sistenti dal nulla della libertà. In una parola, siamo di fronte a ciò che Emo chiama la presenza, l’atto, l’individuo, l’io puro che è legato, in quanto “gettatezza”, alla dimensione della naturalità animale, dell’αναγκη, dalla quale, per approssimarsi alla libertà, è necessario svincolarsi. Con il che, mi pare, sia definitivamente chiarito che nella filosofia evoliana, nella sua analitica dell’esserci, è presente, in nuce, una positiva filosofia dell’esistenza. Positiva, perché non fa della nullificazione il punto d’arrivo, ma il realistico punto di partenza di un percorso esistenziale che, muovendo dal limite della necessità, sotto la spinta dell’inquietudo prodotta dalla meraviglia del mondo, induce le fasi originarie di un processo di ascesi individuale, che ha i tratti della greca μετανοια, di un radicale cambio di cuore.[15] E con ciò, Evola si pone tra gli autori che hanno tentato, a volte muovendo da prospettive diverse, di recuperare al moderno l’esperienza classica della ragione.[16] Pertanto, fin dalla scoperta della fatticità umana, per il pensatore romano, l’essere uomini si configura come un compito, come una possibilità, non come semplice e definitivamente data realtà. È, infatti, il secondo stadio quello in cui l’io: “volge verso un’autonomia e un’esistenza individuale”.[17] Questa fase ha il suo momento apicale nella conquistata solitudine del singolo, una conquista solo rappresentativa, si badi. In essa il mondo è gnoseologicamente posto dall’io. Così, questo momento, è quello che è stato conseguito dall’attualismo di Gentile, quale espressione più avanzata del pensiero astratto moderno. Con ciò, non si abbandona la dimensione che Evola chiama della spontaneità. Ciò avviene solamente nel terzo stadio, quando l’individuo riesce a trarre da sé i principi che lo pongono di là dalla rappresentazione, in un processo di cor-rispondenza al principio, all’αρχη, che è, in questa prospettiva, aristotelicamente, anche τελος, fine. Chi riesce a tanto, è l’individuo assoluto. Questi, nell’attimo inchiodato alla libertà, che è il principio, nell’attimo immenso, nel momento della decisione suprema, squarcia il tempo cronologico e lineare e, recuperando l’origine, vive l’eterno.[18] A tanto riesce l’individuo evoliano perché egli è presso se stesso, consiste da persuaso nell’eterno presente, di là dalla dimensione cosale e desiderativa della correlazione di coscienza. Ma il prius, l’origine cui bisogna corrispondere, la libertà del principio cos’è? Essa è al-di-là di ogni determinazione in quanto nulla di ente, quindi ni-ente. Ciò non rinvia affatto a un principio trascendente il mondo, anzi, allude a una relazione conseguibile e sempre possibile. Non è definibile, oggettivabile, entificabile, è fondamento che si toglie in quanto tale, è la libertà di cui ha, tra gli altri, colto il senso, Luigi Pareyson: “..è del tutto gratuita e infondata…non è un fondamento ma un abisso, un fondamento che si nega sempre come abisso”,[19] per questo il suo mostrarsi è quello del ni-ente, lo scacco della dimensione cosale. In questa elaborazione teoretico-pratica della libertà-nulla Evola mostra, come si vedrà, una prossimità assoluta ad Emo. Ciò in forza del fatto che entrambi si servono della lezione di colui che, con sagacia, Lukács definì: “il padre spirituale di tutti i reazionari”, e cioè Schelling.[20] L’Αρχη-τελος di Evola ha, in sé, sempre, la possibilità di negare: “..la sua stessa assolutezza, facendosi finito….è il Supremo”.[21] Questa autolimitazione della libertà, ha rilevato G. Damiano: “quest’atto de-creativo, appartiene radicalmente ad essa”.[22] In ciò, l’acuto esegeta di Evola, ha colto un motivo comune anche al pensiero di Emo, quello del Dio negativo, dio creaturale e mortale. Pertanto, in questa prospettiva, risulta essenziale la distinzione evoliana tra Gottheit e Gott, tra il divino e Dio, inteso come determinazione, come positum.[23] Se l’uomo vuole farsi testimone della libertà, dell’origine, deve farsi carico di questa costitutiva ambiguità che la caratterizza e che rende il nostro ex-sistere, il nostro star fuori da essa, centrato nell’insecuritas. E’ così che, alla conquista progressiva di spazi di libertà, può far seguito il ricadere nella dimensione, apparentemente opposta, della necessità. In ciò consiste la filosofia della liberazione di Evola, poiché la libertà come compossibile, implica sempre, in sé, la stessa necessità. Filosofia, quindi, quella evoliana, dal carattere aperto, utopico e mai utopistico, antidogmatico ed iperbolico.[24] Questa considerazione, distingue nettamente il soggetto evoliano da quello teorizzato nel pensiero moderno, da Cartesio in avanti, che si pensa assoluto in quanto imago dei, quindi all’interno di una cornice concettuale ereditata dal giudeo-cristianesimo, un soggetto che si esperisce separato dal mondo, un io senza cosmo o contrapposto, in conflitto con il cosmo che, al più, mira a soggiogare attraverso l’azione manipolatrice e violenta dell’impianto tecnico. Ci pare che Evola sia giunto a tale visione delle cose, nell’ambito del pensiero filosofico, attraverso due diversi interessi di indagine: il primo è quello, ricordato, del neoidealismo. In questo ambito, su Evola hanno agito fortemente gli esiti della riforma della dialettica hegeliana del francese Ottavio Hamelin. Questi, come ricorda Melchionda, ebbe il merito di capovolgere in senso aristotelico la dialettica hegeliana, rivalutando, in essa, il momento particolare, la singolarità e giungendo a: “unificazioni di razionale e reale sempre più complesse e ricche, sempre più individuate, dando così vita a una dialettica positiva. Il conseguente qui….s’innesta come il più sul meno”.[25] Il reale finito si configura come un incompleto, come un da-superarsi ed integrarsi. Evola chiama “intervallo” il momento in cui la potenza incondizionata liberamente si condiziona e si finitizza, facendo del mondo della necessità il suo corpo di realtà. Ma è proprio qui, nell’“intervallo”, che si evince con chiarezza come l’ontologia del tragico, mutuata dalla linea Schopenhauer – Nietzsche, sia fondamentale in Evola. Quell’ontologia che è, grecamente, nel medesimo tempo, una fenomenologia della presenza, del lasciar-essere gli enti nella loro provenienza dall’απειρον e nel loro eterno ritornare a esso. Centro vitale, questo, che rintracceremo, ora, nella stessa filosofia di Andrea Emo e che, i Greci, ancora loro, chiamarono Dioniso.
Libertà e nulla in Andrea Emo: il dio negativo
Per presentare la figura di Emo, forse può valere ciò che una volta ebbe a dire Montale su celebrità e poesia. Anche perché, questa battuta montaliana, è stata già utilizzata a proposito di Pessoa che, per molti aspetti, al filosofo veneto assomiglia, se non altro per il ritrovamento casuale del suo baule di tesori di eteronomia. Il poeta ligure sostenne, infatti, che nel palazzo dell’Immortalità artistica o intellettuale si può entrare attraverso il portone d’onore o dalla porta di servizio, ma vi è chi vi entra dalla finestra o dal comignolo.[26] Emo, vi sta entrando suo malgrado, da quando, dopo la sua morte, amici di famiglia presentarono uno dei suoi 398 quaderni per computisteria, tutti manoscritti, a Massimo Cacciari. Questi, si rese immediatamente conto dell’eccezionalità filosofica del personaggio che aveva attraversato in solitudine, e in pubblico silenzio, tutto il secolo XX, riflettendo intorno alle cose ultime, agli sviluppi della filosofia mondiale, nel costante esercizio del pensare scrivendo, di cui i quaderni sono tangibile testimonianza. Risultato questo, di una vocazione animata da un δαιμων solitario ma irrefrenabile, che lo spinse a vedere nella dimensione dello scritto pubblicato un tradimento, in senso platonico, della ricerca della verità. Dopo questa scoperta, e nonostante ciò, Cacciari, Donà, Gasparotti hanno dato alle stampe molte delle pagine di Emo.[27]Per interpretarne il senso, vogliamo muovere da una constatazione che è stato fatta a proposito del suo pensiero: “La scoperta di quest’opera impone di ridisegnare il paesaggio non solo della filosofia italiana del ‘900, ma anche di quella europea”.[28] Tutto ciò perché in Emo è completamente assente lo schema concettuale sul quale è stato costruito l’intero sistema di pensiero occidentale, lo schema contrappositivo-escludente che oppone l’essere al nulla, il positivo al negativo, facendo aggio sul principio d’identità. La sua filosofia, che è stata riduttivisticamente definita nichilistica, in realtà è, sic et simpliciter, non nichilistica, o quantomeno latrice di un’esegesi del nulla completamente altra rispetto a quella che si è affermata tra ‘800 e ‘900. A ciò egli giunse, come accadde a Evola, problematizzando l’atto gentiliano attraverso Schelling. Pertanto, il problema del nulla in Emo diviene essenziale: “…perché egli pensa l’assoluto come soggetto”.[29] Così giunge a chiedersi: “Che cos’è il nulla? Ma il nulla non è un quid: anzi non è: il nulla è ciò che è puramente presente”.[30] Infatti, per lo Schelling delle Lezioni di Erlangen se l’assoluto è pensato come soggetto, se è ciò che viene prima, esso non potrà mai esser detto, sfugge alla datità definitoria, si configura come ni-ente. Insomma, Emo è il filosofo che ha avuto maggior contezza della presenza dell’assoluto come autonegarsi continuo nel finto, e ciò in forza della sua opzione per un cristianesimo tragico: “E’ proprio il dio cristiano colui che è così assoluto, così potente da potersi auto negare”.[31] L’assolutezza di dio, in questa prospettiva che a noi pare solo paradossalmente cristiana ma, come dicevamo, ci sembra nella sua essenza riproporre l’interpretazione greca e dionisiaca del mondo, si dà nel suo farsi finito, nell’incarnarsi, nel prender forma. L’individuo può corrispondere a questo processo nella coscienza della mortalità di ogni βιος, di ogni vita “formata” nel e dal principium individuationis, e della non-morte rappresentata da ζωη, κρονος του ειναι, il tempo dell’essere. Nella rinuncia al limite che si acquisisce nella dimensione entusiastica: “L’io rinuncia a sé e con ciò stesso pone, crea, è l’assoluto”.[32] Quindi, il divino è continuamente testimoniato dall’uomo nel suo autonegarsi. Questa identità indiscernibile tra io ed assoluto in Emo, è posta dal paradosso della soggettività. Egli scrive: “Il tutto non può essere fuori di noi; è noi; ed essere noi vuol dire essere l’attualità dell’istante che è unico attuale, perché l’attualità è il suo negarsi”.[33] Il soggetto assoluto evoliano-emiano mostra qui con chiarezza la sua matrice schellinghiana, ponendosi al di là, tanto di teologia positiva che di teologia negativa, in quanto immemoriale, im-pre-pensabile e in-dicibile. Il suo essere libero di porsi o di non-porsi in una forma, manifesta il suo essere libertà: “L’assoluto soggetto è eterna libertà”.[34] Ciò evidenzia, al contempo, la dimensione infinita e arbitraria dell’αρχη, il suo coincidere con l’idea di Possibilità, con lo zero, secondo le modalità in cui tale concetto è esperito nella filosofia della tradizione. Per questo, la cifra schellinghiana, può divenire davvero la chiave di volta per leggere correttamente, su questo punto almeno, non solo Emo, ma anche Evola. Al Principio per Schelling, infatti, si corrisponde con un movimento, esistenziale e speculativo, inteso a fare il vuoto nella coscienza, a tacitare il chiacchiericcio interiore. Questo primo momento ripropone il non sapere classico, socratico, cui fa seguito un non sapere finale, risultato di una gnosi realizzata, un sapere sciente al termine del quale si manifesta: “una interiorizzazione rammemorativa che ci conduce ad apprendere come al fondo vuoto del nostro io siamo identici all’assoluto…nell’abisso vuoto dell’io, l’io depotenziato, pone l’assoluto non soltanto come nulla, ma. …come eterna libertà”.[35] Ich setze, io pongo, dice Schelling e nella Filosofia della Rivelazione tenterà di declinare l’idea di assoluto, non solo nella sua possibilità, ma nella sua realtà, mancando l’obiettivo, a nostro parere, in quanto il limite gnoseologico dell’idealismo, rese il suo tentativo inane. Ecco, ci pare che mentre Emo sia, in ciò, rimasto a Schelling, Evola sia andato oltre, recuperando una linea che muove da Fichte per giungere a Stirner e Nietzsche, esplicitando questo suo sforzo, nell’individuazione di una prassi polimorfica: artistica, politica, esoterica e storico morfologica, che è testimoniata dalle sue opere.[36] Ciò significa forse che Emo, come molti rappresentanti del decadentismo europeo, è rimasto imbrigliato nelle maglie, suadenti ed affabulanti, del suo stesso racconto del nulla? Assolutamente no! Innanzitutto, perché il dio “..che siamo non può che manifestarsi…ma niente è più bello di questo, niente è più profondamente vero di questo divino inganno”.[37] Il mondo ha, comunque, una sua giustificazione estetica, il nulla non induce in lui fughe, vie d’uscita, ma accettazione tragica e più che vita, risposta d’intensità. Va evitato il rischio, implicito nell’approccio estetico e testimoniato dal romanticismo, che la parola o l’arte tradiscano la presenza, che contribuiscano a ispessire, e non semplicemente a lasciar essere, l’inganno: “La parola si fa inganno quando lascia le rive della pura presenza per farsi discorso”[38], per farsi rettorica in senso michelstaedteriano, dire non persuaso. Con Leopardi, che qui vogliamo ricordare nella sua eminente qualità filosofica oltre che politica, Emo sa che: “Conoscere il vero delle cose, significa cogliere la loro perfetta nullità, la loro as-soluta indifferenza nei confronti della dilagante sete di differenze proprie dei moderni”.[39] Come non convenire, quindi, con Carlo Sini quando sostiene che in Emo è presente: “un filone che si potrebbe definire vichiano”.[40]Infatti, nelle sue pagine, il problema dell’origine è un problema dell’immagine, in quanto l’assoluto, il continuo negarsi del dato, vive sempre e solamente delle sue immagini. Da qui nasce l’arte: “Il significato dell’arte può essere solo la sua metamorfosi, la grande opera alchemica della trasformazione”.[41]In essa, ogni ente si fa rivelatore di un vero che non può essere catturato, in quanto: “L’arte è metamorfosi della necessità”[42], di ciò che, come la dimensione corporea, obbedisce alle cieche leggi del dato. Per questo è liberazione, l’atto con il quale il mostrarsi, grecamente, nega la propria determinata datità. L’arte per Emo ha valore fondativo, è azione sul reale. Egli sembra anticipare o aver sentore, negli anni trenta, delle posizioni espresse sul mondo poetico primitivo, attraverso Vico, da Creuzer e da Kerény: l’artista quale volgarizzatore dei misteri della divinità, come colui nel cui nome: “la comunità degli uomini si identifichi e si riconosca”.[43]Per di più, nella consapevolezza, che l’arte è al medesimo tempo, come la conoscenza tutta, supremazia e maledizione, heideggeriana messa in opera della verità e suo ri-velarsi, e per questo suprema tutela del misterium del mondo dalle evidenze positive. Ad essa, pertanto, deve accompagnarsi anche quella qualità diagnostica in grado di rilevare i tratti salienti del tempo e che, nel pensatore veneto, produsse una delle critiche più originali e radicali alla modernità, elaborate nel ’900. Prima di affrontare la quale è bene, però, soffermarsi su ciò che unisce effettivamente l’esperienza filosofica del primo Evola a quella di Emo: e cioè il fatto che entrambi leggono il mondo attraverso lo specchio di Dioniso.
La potenza originaria di Dioniso
Evola, in L’Individuo e il divenire del mondo, nel differenziare nettamente l’esperienza religiosa da quella iniziatica e, nella fattispecie, la sapienza misterica centrata su Dioniso dal cristianesimo, sostiene che un reale superamento dell’ordine della natura: “..non vi è che in colui che non è né identità con le cose, né con leggi, né con i valori e nemmeno con se stesso ma dominio e libertà rispetto a tutto ciò: voragine di potestas infinita e selvaggia…ne segue non uno stato di unione, di conoscenza….ma uno sradicare, un violare….ogni necessità di legge, di forma, di valore”.[44] Quest’affermazione chiarisce come il filosofo romano debba essere letto in una prospettiva di ricerca postmetafisica, in quanto cosciente, già a metà degli anni venti, di quanto Heidegger chiarirà, in termini definitivi, solo con la Lettera sull’umanesimo, e cioè che il pensare per valori è un impoverimento concettuale, occultante l’essere perché ogni valutazione, anche quando è una valutazione positiva, è una soggettivizzazione: “ Essa non lascia essere l’ente, ma lo fa valere solo come oggetto del proprio fare… il pensare per valori è la più grande bestemmia che si possa pensare contro l’essere”.[45]L’assunzione del dionisiaco è il non recedere di fronte alla scoperta del nulla originario, è il tener fermo di fronte all’abisso, è corrisponderle. La gnosi dionisiaca, per Evola, comporta leggere il reale, la molteplicità e il finito come potenza: “Sofferta, resa estranea e fuggente a sé stessa, la libertà (fatta) contingenza e follia indomabile dei fenomeni”.[46] Apollo è simbolo di questo venir meno, di tale de-linquere alla potenza assoluta, il dio è volontà che uscendo da sé si trasforma in occhio e forma: lo spazio è il suo esser fuori, che rende il reale immagine e visività del multum che rispecchia: “l’abbandono della tensione, il corrompersi e disgregarsi dell’unità dell’atto”, in una parola il suo divenir bisognoso dell’altro.[47] Il divenire tangibile, il mostrarsi della cosalità delle cose come il loro proprio, è per Evola: “quasi la sincope stessa della paura che arresta e sospende l’essere insufficiente sull’orlo della voragine della potenza dionisiaca”.[48] Queste parole testimoniano che Evola, in quei concitati mesi, cercava la sintesi delle sue esperienze esoteriche e delle sue ricerche filosofiche. In esse, il mondo apollineo assume il senso della solidificazione dell’ενεργεια, è il grande corpo paralizzato che si manifesterebbe come legge, cioè modalità d’ordine, e come finalità. Ma la via di Dioniso richiede l’απειρον, il superamento del blocco, osare trasfigurare la forma: “per mettersi a contatto con l’atrocità originaria di un mondo in cui bene e male, divino e umano… non hanno più alcun senso essendo soltanto potenza, nuda libera potenza fiammeggiante…realizzare l’indomito piacere di vivere tragicamente, tale è la prova di Dioniso”.[49] Per Evola, pertanto, Dioniso non può estinguersi nella pura contemplazione, nel puro conoscere, perché in esso si avrebbe alla fine, il trionfo dell’illusione apollinea che estinguerebbe l’essere in un assoluto nulla (forse è proprio questo il limite dell’agnizione tragica di Emo, un’agnizione per così dire apollinea, secondo la lezione evoliana della metà degli anni venti). Al contrario, bisogna ricondurre: “..inflessibilmente l’io al centro della potenza da cui ha scartato, a renderlo un’immanenza assoluta e sufficiente che non lascia più alcun posto a contemplare…questa è la liberazione vera”.[50] Se Evola, in queste pagine, è assertore di un Dioniso letto ancora con gli occhi di Nietzsche, nella sua alterità rispetto ad Apollo, è con Giorgio Colli che questa potenza divina diviene la chiave di volta di una nuova visione della grecità e del classico: “Dioniso a differenza delle altre divinità….nasce da un’occhiata su tutta la vita….Questa è la tracotanza del conoscere…questo suscita Dioniso come dio onde sorge la sapienza”.[51] La sapienza, in questa polarità divina, si mostra come com-prensione totalizzante della vita, in lui vivono le estreme possibilità umane, quella dell’animale ma anche quella del dio. La sua vita testimonia dello slancio vitale, del suo necessario doversi negare nel molteplice, dell’essere emianamente dio negativo. Le acquisizioni più recenti della scienza archeologica e storico religiosa, hanno mostrato l’origine autoctona, minoico-cretese di questo dio e il suo non essere collegato, sic et simpliciter, alla dimensione tellurica della fertilità.[52] Quindi, per Colli, il dionisismo non è riducibile alla semplice sfera dell’orgiasmo, inteso come stato allucinatorio, indotto da musiche e danze coribantiche, non è riducibile ad un’emotività sfrenata e senza controllo, subita e passiva, ma rappresenta una gnosi, nella quale è implicita la polarità apollinea, l’altro volto dell’αρχη.[53] La differenza tracciata da Colli fra Dioniso e Apollo va intesa come distinzione tra la forma e l’oggetto della sapienza: Dioniso ne esprime l’origine immediata, Apollo il suo farsi λογος, parola. Pertanto, la civiltà greca, secondo l’antichista italiano, sarebbe sorta e si sarebbe sviluppata all’interno di questa sintesi originaria e originale di sapere misterico e del suo successivo dispiegamento noetico.[54]Della qual cosa, si era reso perfettamente conto Emo, quando scriveva: “Forse la storia è un perpetuo ritorno al dionisismo attraverso e mediante la conoscenza apollinea… Il dionisismo è l’individualità stessa che tende.. a passare nell’illimitato…. e al medesimo tempo una coscienza dell’individualità come tale”.[55] Con ciò, come Evola, vedendo in Dioniso la ricerca di una vita pura, di una vita unità-totalità, egli ha colto nel suo affermarsi: “una volontà di nulla….la affermazione di vita è nel dionisismo una affermazione tragica”, come nel cristianesimo.[56] Dal che emerge la paradossalità del cristianesimo emiano, essenziato dalla visione dionisiaca del mondo, in cui è assente la trascendenza di dio e in cui, ci pare, lo stesso simbolo della croce, del dio che muore, ha valenze cosmiche più che redentive.[57] Egli si fa interprete di un cristianesimo che, in quanto tragico, sorge come rifiuto della trascendenza della religione ebraica e del monoteismo inconsapevole delle religioni olimpiche: il cristianesimo di Emo è un ritorno all’origine dei culti agrari.[58] Che il suo cristianesimo sia connotato in termini negativi e dionisiaci lo si evince con chiarezza da affermazioni come le seguenti: “Il cristianesimo è la religione originaria…della vita, della morte e della rinascita”.[59] E’ su questa visione del mondo che Emo sviluppa, come del resto Evola, la sua critica della modernità e fu essa a determinare le sue scelte e la sua azione politica.
L’epi-demia democratica
Mentre la posizione antimoderna di Evola è ben nota, quella di Emo è misconosciuta. Tutti sanno che il primo legge il moderno all’interno di una morfologia della storia ciclica che ha, nel fenomeno della progressiva regressione delle caste e nell’irruzione del cristianesimo, due momenti fondamentali. Il processo di allontanamento dall’origine, dalla tradizione, si sarebbe poi manifestato con chiarezza a partire dal Rinascimento che avrebbe trovato il proprio sviluppo naturale nella Rivoluzione scientifica, nell’illuminismo e nel 1789, per realizzarsi, compiutamente, nel democratismo, nel socialismo, nel comunismo. Il dualismo storico di Emo è più sottile e sfumato, non nasce dalla semplice contrapposizione di tradizione e modernità, ma da quella tra ciò che egli definisce la religione del dio negativo, del dio mortale e le sue diverse manifestazioni nella storia, e una modernità che implode nel pelagianesimo gnostico, quale esito delle certezze olimpico-monoteiste che il cattolicesimo, in particolare nel periodo della Controriforma, ha inserito nella tradizione cristiana delle origini, tradendola e snaturandola. Per questo, Emo vede nella riemersione del platonismo e dell’ermetismo rinascimentale, così come nel primo protestantesimo, a differenza di Evola, un’occasione persa di rettifica, il cui apice, non casualmente, individua in Bruno, eletto a simbolo di quel ritorno a Dioniso, punito con il rogo: “In Bruno era arso solennemente il Rinascimento, l’unico martire di Roma non era un santo… un epoca come quella del Rinascimento, fatta di misure e di armonie di rapporti si chiudeva con il carme dell’infinito…Bruno sentì il rapporto tra lo strettissimo carcere e l’infinito di cui era banditore; unità dei contrari”.[60] Da allora, per Emo, l’uomo europeo ha vissuto nello scacco esistenziale prodotto dalla perversa sintesi tra la mentalità illuministica e la degenerazione in senso pelagiano del luteranesimo, il cui risultato ultimo si è mostrato nella ideologia democratico-liberale. Questa, a parere del filosofo, ha tacitato, nonostante le dichiarazioni d’intenti, nel dominio dell’oggettivo, del pubblico, dell’esteriore e dell’universale, la libertà e il suo correlato, cioè la potenza, alle quali può corrispondere solo un’individualità realizzata. Ciò ha prodotto l’inverarsi della potenza e della libertà, in funzione universalizzante, nelle istituzioni democratiche che, proprio per questo, sono divenute, in senso etimologico greco, epi-demiche. Dopo la seconda guerra mondiale Emo ebbe a scrivere che: “..il mondo gridando libertà…si avvia verso una servitù della quale non si è mai avuto l’uguale”.[61] Ciò alla luce, appunto, del carattere epi-demico della democrazia, del suo incombere sul popolo: “come forma più potente ed alienante di contemporanea superstitio”.[62]
Conclusioni
A conclusione di questo breve excursus, mirato alla discussione di alcuni, circoscritti, aspetti delle filosofie di Evola ed Emo, ci pare di poter sostenere che le loro proposte non son affatto riducibili a nostalgie teoricamente e politicamente reazionarie, anzi la loro lezione induce, se ben intesa, un’accettazione totale della vita in grado di muovere ad un’azione conseguente. Non si tratta né di cattivi maestri, né di sostenitori di miti incapacitanti, in quanto il loro guardare all’αρχη e al modo in cui fu esperita in esperienze di pensiero lontane: “…rende possibile andar avanti”.[63] La loro filosofia dell’origine ha i tratti di una fenomenologia della presenza: “che si mostra attraverso quel che i Greci chiamavano ενεργεια”.[64] Quindi, la loro accettazione del mondo, passa dal “lasciar apparire” le cose, alla luce della quale si coglie l’identità, ancora presente in Aristotele, di ενεργεια e ποιειν. In essa, emergeva: “l’ampiezza epifanica dello sbocciare, non la dinamica di un impulso che ne sarebbe la causa efficiente…i Greci sono coloro per i quali tutto (quel tutto che comprende anche gli dei) ha come sua natura d’esser manifesto”.[65] Anche il nulla di Emo, quindi. Infatti, in senso greco, esso manifesta la sua vocazione cosmica: “una disposizione in virtù della quale le cose appaiono al colmo della loro luce”, sia pur effimera.[66] Il mondo è schiudersi e ritrarsi in grado di destare la meraviglia e, attraverso essa, l’ascesi gnosico-erotica, la φυσις è un tale dischiudersi che cela in sé anche la possibilità opposta, come: “il deserto che rifiuta lo sbocciare dei fiori”.[67] Quest’approccio fenomenologico implica il superamento dell’opposizione sterile della presenza e dell’assenza, per aprirsi a un sapere in cui l’assenza stessa è modo della presenza. Cosa, peraltro, cui paiono alludere certe posizioni maturate agli esordi dell’idealismo classico tedesco, in quello Stift di Tubinga, il cui vero animatore non fu Hegel, ma il geniale Hölderlin.[68] Ci preme, infine, ricordare come il tentativo di recuperare l’arte tragica e dionisiaca, si sia accompagnato fin dai suoi esordi schopenhaueriani, all’esperimento parallelo e congruente di costruire una politica antiatomistica, comunitaria, un socialismo nazionale e olistico in grado di rispondere in termini nuovamente aggregativi e partecipativi, all’in-solitudine dell’uomo contemporaneo. Al caso, vogliamo ricordare lo studio di William J. McGrath, praticamente sottaciuto in Italia, che ricostruisce, certo, la microstoria di un gruppo mitteleuropeo e viennese, il gruppo “Pernerstorfer”, i cui membri svolsero un ruolo fondamentale nel mondo della cultura e della politica austriaca ed europea, tra la fine del secolo XIX e gli esordi del secolo breve. Tra essi, qui ricordiamo il politico Victor Adler e, soprattutto, il musicista Gustav Mahler. Le loro vite e le loro opere testimoniano che l’esito del “dionisismo”, correttamente inteso, non è l’impoliticità, ma al contrario impegno nel mondo, affinché la categoria stessa del politico torni ad assumere la funzione anagogica che, classicamente, le appartiene.[69] Per questo, Evola ed Emo, agirono nel loro tempo, tentarono di intervenire, sia pure secondo modalità diverse, sul reale. Pensatori autentici, fuori dagli schemi e dalle scuole, almeno da quelle ufficialmente accettate o accademicamente istituzionalizzate, le loro opere sono sorgenti di vita e pensiero. Averli posti a confronto, su un tema non abituale per l’esegesi evoliana, quello del nulla, può avere, naturalmente, anche il senso di una provocazione. Provocazione volta a mostrare che se la comparazione dell’opera evoliana con quella guénoniana ha prodotto frutti positivi, l’attualizzazione di Evola esige il confronto anche con il contemporaneo, almeno per due ordini di ragioni: 1) perché l’originalità di Evola sta nell’essere pensatore al medesimo tempo dell’avanguardia e della tradizione e, pertanto, sottovalutare una parte rispetto all’altra, non consente un approccio organico al suo sistema 2) perché la tradizione di Evola matura nella sua elaborazione filosofica e assume l’indelebile carattere non della nostalgia, ma del “sempre possibile”. Più probabilmente, questo compito al quale tutti noi dovremmo essere chiamati, per rispondere a quanto Evola ci ha dato, ha il medesimo tratto della via che egli ci ha suggerito, quello dell’interminabilità.
[1] A. Del Noce, Giovanni Gentile. Per una interpretazione filosofica della storia contemporanea, Il Mulino, Bologna 1990, p. 8. Quest’opera è stata pubblicata postuma per la morte dell’autore, avvenuta il 30 Dicembre 1989, per la cura di Rocco Buttiglione.
[2] Su posizioni opposte a quelle di Bobbio e Cantoni, almeno in merito a questo punto, vanno ricordati, oltre al già citato Del Noce, G. Sasso con Le due Italie di G. Gentile, Il Mulino, Bologna 1997 e, soprattutto, E. Garin. Questi, ha sostenuto che, a proposito del neoidealismo: “Si volle dimenticare che la riflessione filosofica si era misurata con tensioni politico-sociali d’ogni sorta e si era intrecciata allo sviluppo delle discipline storiche, filosofiche e linguistiche di tutto rispetto….che aveva mantenuto fitti rapporti con settori non trascurabili della cultura europea”. In Agonia e morte dell’idealismo italiano, Aa. Vv., La filosofia italiana dal dopoguerra ad oggi, Laterza, Bari 1985, p. 5. Dello stesso autore si consulti, inoltre, l’ormai classico, Cronache di filosofia italiana, Laterza, Bari 1966. Invece, per l’apertura della filosofia di Evola all’Europa si vedano: G. F. Lami, Introduzione a J. Evola. Un passo per la vita e un passo per il pensiero, Volpe, Roma 1980. – R. Melchionda, Il volto di Dioniso. Filosofia e arte in Julius Evola, Basaia, Roma 1984. – G. Damiano, La filosofia della libertà in J. Evola, Ar, Padova 1998. Per quanto si riferisce ad Emo, si veda l’unica monografia finora a disposizione sul suo pensiero: L. Sanò, Un daimon solitario. Il pensiero di Andrea Emo, La Città del Sole, Napoli 2001.
[3] E. Nolte, Nazionalsocialismo e Bolscevismo, Sansoni, Firenze 1989.
[4] Facciamo nostro il termine transattualismo desumendolo da uno scritto di R. De Mattei, Il transattualismo di J. Evola, in “Intervento”, n. 3, 1973. Sulla necessità storica di incontro con l’attualismo, per la generazione dei nati negli ultimi anni dell’Ottocento o nei primissimi del secolo XX, ha detto esemplarmente E. Garin. Questo fu il bisogno di una generazione: “..che dalla guerra aveva tratto una lezione di serietà, e un bisogno di ricostruzione concreta di una società in crisi. L’unico ambiente culturale che offrisse allora una qualche possibilità orientatrice era quello idealistico”. Cronache di filosofia, cit., vol. II, pp. 345/346.
[5] Cfr. K. Löwith, Da Hegel a Nietzsche, Einaudi, Torino 1974 e M. Cacciari, Geofilosofia dell’Europa, Adelphi, Milano 2003, p. 165.
[6] R. Melchionda, Op. cit., p. 165.
[7] Così, su questo tema la Campo: “La passione della perfezione viene tardi. O, per meglio dire, si manifesta tardi come passione cosciente. Se era stata una passione spontanea, l’attimo fatale di ogni vita, del generale orrore, del mondo che muore intorno e si decompone, la rivela a se stessa: sola selvaggia e composta reazione”. In, Gli Imperdonabili, Adelphi, Milano 1987, p. 73. E ancora, più significativamente: “Perfezione, bellezza… È un carattere aristocratico, anzi è in sé la suprema aristocrazia. Della natura, della specie, dell’idea… l’arte testimone di ciò che immobilmente perdura: un guerriero, una stella, una morte, un cespuglio di sorbo”. Op. cit., p. 76/77. A. Emo conobbe la Campo la notte di Natale del 1973, nella chiesa di S. Antonio Abate a Roma. Nei suoi 398 quaderni di computisteria, interamente manoscritti, per lo più composti da aforismi, trovati dopo la sua morte, nei quali raramente il filosofo veneto cita qualcuno o fa riferimento a persone, una sola volta il flusso dei pensieri si interrompe: a p. 9 del Q. 379 del 1977, in cui scrive: “È morta. C. Campo è morta”. Ciò a significare la straordinarietà che egli aveva colto nella scrittrice.
[8] Su questo tema, ci permettiamo di rinviare alla nostra monografia La meraviglia del nulla. Vita e filosofia di A. Emo, prefazione di R. Gasparotti, Bietti, Milano 2014.
[9]G. Calogero, Come ci si orienta nel pensiero contemporaneo? Con un’appendice sulla filosofia italiana del dopoguerra, Sansoni, Firenze 1940, pp. 57/58.
[10] Così Jacobi: “L’idealismo io chiamo nichilismo…l’uomo ha una scelta, ed una sola: o il nulla o Dio. Scegliendo il nulla egli si fa Dio”. In Idealismo e realismo, De Silva, Torino 1948, p. 193, a cura di N. Bobbio. È significativo che il più attento studioso italiano del nichilismo, che mostrò anche interesse per Evola, Franco Volpi, muova proprio da questa lettera di Jacobi nella sua monografia su questo tema. Cfr. F. Volpi, Il Nichilismo, Laterza, Roma – Bari 2004.
[11] J. Evola, Saggi sull’idealismo magico, Alkaest, Genova 1981, p. 19, n. 1.
[12] Cfr. G. F. Lami, Op. cit., Prefazione di G. Borghi, p. 13. Quest’opera ha una sua importanza nell’esegesi del pensiero di Evola, perché coglie l’essenzialità del momento filosofico, rilevando il carattere pratico dell’idealismo magico. In particolare, G. Borghi, nella prefazione segnalata, propone un significativo excursus relativo alla scoperta del valore noetico della filosofia, che avrebbe progressivamente dato luogo, nella tormentata storia d’Europa, al dualismo di vita e di pensiero, di cui Evola tentò un superamento effettivo, coinvolgente la totalità della persona, che avrebbe prodotto in lui, la rinuncia alla filosofia stessa e aperto la fase ermetico-realizzativa.
[13] Cfr. J. Evola, L’individuo e il divenire del mondo, Arthos, Carmagnola 1976. Il libro raccoglie i testi di due conferenze tenute da Evola nel 1925. Il secondo scritto è centrato sulla polarità divina di Dioniso che, come si vedrà, è assai importante nella nostra esegesi di Evola e di Emo. Per le altre opere filosofiche di Evola, siamo qui costretti a rinviare a: J. Evola, Teoria dell’individuo assoluto, Mediterranee, Roma 1973 – J. Evola, Fenomenologia dell’individuo assoluto, Mediterranee, Roma 1974 – J. Evola, Saggi sull’idealismo magico, Alkaest, Genova 1981.
[14] J. Evola, Op. cit., p. 33.
[15] L’antichista E. Berti ci ricorda che tanto per Platone quanto per Aristotele, la meraviglia di fronte al reale origina la tensione erotica al sapere. Iride, figlia di Taumante (da θαυμαζειν, “meravigliarsi) e messaggera degli dei, è presentata, nel Teeteto platonico, come simbolo della filosofia: la meraviglia non è un sentimento facile da provare, è, anzi, uno stato d’animo raro e prezioso. E’ espressione della vera libertà: libertà dal bisogno e dagli altri desideri. I latini resero il “meravigliarsi” dei greci con admirari. I cristiani, successivamente, trasformarono la meraviglia in ammirazione, un sentimento di tipo estetico, in quanto unica situazione emotiva che si può provare davanti al creato quale opera di Dio. La meraviglia greca, al contrario, dava luogo a un percorso noetico, a una gnosi, proprio come in Evola ed Emo. Cfr, E. Berti, In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica, Laterza, Roma – Bari 2007, p. 4.
[16] Su questo tema rinviamo a: E. Voegelin, Trascendenza e gnosticismo, Astra, Roma 1979, pp. 43/96, a cura di G. F. Lami. Qui, il filosofo austro-tedesco, oltre a presentare la scoperta greca del νους come possibilità diagnostica e terapeutica rispetto al disordine esistenziale e politico, ripropone l’antropologia classica: in essa l’uomo era posto nel μεταζυ, nell’in-tra, nella condizione intermedia tra l’animale e il dio, condizione, peraltro, pienamente simbolizzata da Dioniso.
[17] J. Evola, L’individuo e il divenire del mondo, p. 126.
[18] Nelle relazione che Evola stabilisce tra tempo ed eternità, ancora una volta, torna a manifestarsi la sua vocazione classica. Infatti, egli non fa che tradurre in linguaggio speculativo moderno, post romantico e post nietzschiano, ciò che il mito e il pensiero classico avevano esemplarmente colto a proposito delle relazioni tra χρονος, καιρος, αιων. Su questo tema A. Zaccaria Ruggiu ha scritto: “Αιων e il suo corrispettivo romano Aeternitas divengono espressione della perennità del potere, specialmente a Roma, sia nella figura dell’Aeternitas di Roma, sia in quella del popolus romanus e dello stesso imperatore…il riferimento all’Αιων assume un ruolo decisivo anche nei tentativi di restaurazione del paganesimo morente portati avanti dall’imperatore Giuliano”. In Aion Chronos Kairos, p. 308. Dal che si evince come, nel mondo classico, il coincidere di attimo e di eternità trovasse realizzazione, come Evola nel suo percorso mostra di aver compreso, nella dimensione pratico-politica, nella Città, in cui i viventi attualizzano, in un tradere dinamico, la presenza dei passati, adeguando l’agire, il proprio stile nel mondo, al precedente autorevole dell’εθνος di appartenenza. Su questo cfr. A. Schuler, Dell’essenza della città eterna, Ar, Padova 2007, a cura di U. Colla e G. F. Lami, Brevi variazioni sul tema platonico di Er, figlio di Armenio, nativo della Panfilia, in Aa.Vv., “Sanctorum quattuor coronatorum tabularia”, Academia ed. d’Italia e San Marino, Bologna 2008.
[19] L. Pareyson, La filosofia della libertà,Il Melangolo, Genova 1989, p. 18.
[20] Il tema delle influenze schellinghiane sarà affrontato nel momento in cui presenteremo il Dio negativo di Emo.
[21] J. Evola, Teoria dell’individuo assoluto, Mediterranee, Roma 1973, p. 173.
[22] G. Damiano, Op. cit., p. 32.E’ questo un passaggio centrale nell’interpretazione che Damiano compie della filosofia di Evola e che gli ha permesso di cogliere la prossimità del tradizionalista alle posizioni di Emo, proprio riguardo al momento de-creativo, della libertà – potenza – nulla. Se è certamente vero che tale posizione ha caratterizzato il cristianesimo tragico, dal nostro punto di vista pensiamo di poter attribuire tale visione all’originario dionisismo, di cui a breve si dirà, e che troviamo fortemente valorizzato nelle opere degli autori di cui qui si discute.
[23] Ciò rinvia, certamente, alla altrettanto fondamentale distinzione guénoniana tra “Possibilità” ed “Essere”, alla luce della quale il tradizionalista francese ritiene che il carattere dell’infinità possa essere compiutamente attribuito alla prima e non al secondo, per il suo essere già un momento determinato della manifestazione. Al riguardo: R. Guénon, Gli stati molteplici dell’essere, Edizioni Studi Tradizionali, Torino 1965.
[24] Vogliamo qui ricordare che, nella formazione della filosofia evoliana, agì la persuasione teorizzata da Carlo Michelstaedter. La filosofia della persuasione del goriziano rappresenta, nei suoi esiti mistici, un esempio di filosofia della libertà. Alla sua costruzione contribuì certamente il recupero della tradizione greca arcaica letta in chiave pratica. Infatti, la persuasione si presenta come un eleatismo della pratica mediato, però, attraverso le categorie dualistiche della tradizione d’origine di Michelstaedter, quella ebraica, che le hanno dato carattere dogmatico: ciò vuol dire che, una volta conseguita la persuasione, cioè la dimensione della libertà, non è più possibile una ricaduta nella “rettorica”, nella dimensione della necessità. Su questi temi, ci permettiamo di rinviare al nostro Oltre la persuasione. Saggio su Carlo Michelstaedter, Settimo Sigillo, Roma 2008.
[25] R. Melchionda, Op. cit., p. 120.
[26] Cfr, F. Pessoa, Una sola moltitudine, Adelphi, Milano 1979, Introduzione di A. Tabucchi, p. 14.
[27] Andrea Emo (Battaglia Terme, 14 Ottobre 1901 – Roma, 11 Dicembre 1983) discendeva da una nobile famiglia veneziano-patavina da parte di padre, gli Emo Capodilista, e da una altrettanto nobile famiglia calabro-napoletana da parte di madre, i Barracco. Visse, tra la villa di Rivella, nei pressi di Padova, nella quale trascorreva il periodo estivo e Roma. Qui aveva frequentato con brillanti risultati il liceo “Tasso” e, nel 1918, si era iscritto alla facoltà di Filosofia, conoscendovi Giovanni Gentile. Non si laureò mai, ma forse, proprio per il grande interesse suscitato in lui dal filosofo dell’atto puro, cominciò a scrivere i taccuini. Da allora, per lui, l’attività dello scrivere sarà irrinunciabile, metronomo della propria esistenza, confronto con sé e il mondo. Nel 1938 sposò Giuseppina Pignatelli di Monteroduni, dalla quale ebbe due figlie, Marina ed Emilia. Conobbe Ugo Spirito, Benedetto Gentile, figlio del filosofo, Paolo Filiasi Carcano, Enrico Castelli di Zubiena, Ennio Flaiano, Alberto Savinio, che ha dipinto un suo ritratto, Elémire Zolla, e soprattutto, Cristina Campo, che sentì a lui legata da profonda affinità spirituale. Intrattenne rapporti amicali anche con A. Arbasino. In politica fu fascista della prima ora, partecipando alle squadre d’azione a Roma e alla marcia su Padova. Sostituì gli operai socialisti durante gli scioperi dei primi anni venti. Anche nel dopoguerra prese parte da protagonista all’attività politica, candidandosi nelle file del Msi, alle elezioni politiche del 1953, e risultando il primo dei non eletti in Veneto. Poliglotta, assiduo lettore e studioso, raccolse una biblioteca enorme ora custodita con il suo fondo, presso l’Università San Raffaele di Milano. Si interessò ad Evola, come ci ricordano due appunti del 1973, relativi all’acquisto di libri. Nel primo del 4/01, ci dice di aver acquistato quel giorno Il Mistero del Graal e La dottrina del Risveglio, nel secondo del 18/02, ricorda l’acquisto di una nuova copia del Graal. Lesse in lingua originale, conosceva persino l’arabo, i maggiori filosofi antichi e moderni, mostrando particolare predilezione per Heidegger, la scuola francese e il neoplatonismo. Dai suoi quaderni, ad oggi, sono stati tratti i seguenti volumi: A. Emo, Il Dio Negativo, Marsilio, Venezia 1989 – A. Emo, Supremazia e maledizione, Raffaello Cortina, Milano 1998 – A. Emo, La voce delle muse, Marsilio, Venezia 1992 – A. Emo, In forma di parole. Lettere a C. Campo, Città di Castello 2001 – A. Emo, Il monoteismo democratico, Bruno Mondadori, Milano 2003 – A. Emo, Quaderni di metafisica, Bompiani, Milano 2006 – A. Emo, Aforismi per vivere, Mimesis, Milano 2007.
[28] Cfr, R. Gasparotti, Il cacciatore di Chimere, in A. Emo, Quaderni di metafisica, cit., p. 1447.
[29] Cfr, F. Tomatis, L’autonegazione dell’assoluto, in “Panoptikon”, Milano 2004, ora in A. Emo, Q. di M., p. 1619.
[30] Ibidem, p. 1619.
[31] Ibidem, p. 1620. Quest’affermazione che, rivolta a Emo, si riferisce all’αρχη-nulla, può essere valida anche se riferita all’individuo assoluto di Evola. Essa ci pare testimoniare la lungimiranza mostrata nell’interpretare i residui di cristianesimo nella filosofia di Evola, da Piero di Vona in “Esame della filosofia di Evola”, saggio nel quale colse il legame tra individuo assoluto e visione cristiana del mondo, nella dimensione della volontà creativa dal nulla : “..è la sua (di Evola) ferma convinzione che qualcosa possa provenire dal nulla mediante l’atto di una volontà assoluta e arbitraria” a renderlo ancora vicino al cristianesimo. Solo in Cavalcare la tigre, operache Di Vona, correttamente, legge in chiave filosofica, il pensatore della tradizione si sarebbe lasciato definitivamente alle spalle i residui volontaristici e, quindi, cristiani. Cfr. Aa. Vv., Delle rovine ed oltre, Antonio Pellicani, Roma 1995, p. 130.
[32] Cfr, F. Tomatis, Op. cit., p. 1623.
[33] A. Emo, Il Dio negativo, Marsilio,Venezia 1989, p. 43.
[34] Cfr F. Tomatis, Op. cit., p. 1627.
[35] Ibidem, p. 1630. Inutile ricordare che questa prospettiva è quella che anima l’intero pensiero heideggeriano che, a nostro modo di vedere, rappresenta un’altra via di ritorno alla filosofia della tradizione nel ‘900. Leggiamo, condividendone gli assunti di fondo, in un interessante saggio sulla gnosi in Heidegger di M. G. Vinci, quanto segue: “Il cuore del pensiero heideggeriano è costituito da una tematizzazione esplicita del Nulla come quell’Abgrund, quel fondo senza fondo, che negando se stesso, “crea”, permettendo all’Essere di venire alla luce. La negazione per Heidegger è una verità più profonda dell’affermazione: essa mette capo ad una logica dell’identità e ad un sistema gnoseologico e ontologico circolare che torna su stesso e si chiude in se stesso, per cui i due opposti dell’Essere e del Nulla finiscono per coincidere”. M. G. Vinci, M. Heidegger: dallo gnosticismo alla gnosi greca, disponibile sulla rivista telematica di riferimento della Scuola romana di Filosofia politica. In queste posizioni riaffiorano, sia in Heidegger che in Emo ed Evola, attraverso Schelling, i significativi contributi di Böhme e di Eckhart e, in modo evidente, si può constatare in loro il ripresentarsi di tematiche gnostiche. Le loro esperienze speculative, sono state un tentativo di uscire, attraverso il recupero della grecità, operato secondo modalità e prospettive differenti, dall’impianto gnostico, attraverso un recupero, più o meno riuscito, della cosmicità. Con ciò, si spiega l’ interesse per la dimensione pratico-politica, nella quale i tre filosofi sono stati latori di un progetto radicalmente antimoderno, di una vera e propria utopia dellaπολις, di una Rivoluzione del Geist, nella quale assegnarono un ruolo essenziale al sapere filosofico.
[36] Vogliamo qui ricordare che, per M. Donà, esegeta attento tanto di Evola che di Emo, del quale ha curato la pubblicazione di diverse opere, la radicalità del filosofo veneto si manifesta in un quadro speculativo postmetafisico, nel quale si pone ben al di là, tanto del momento attualista che di quello heideggeriano. Il primo, quale forma più coerente di hegelismo, non fa che riproporre nella sua riforma della dialettica dell’idealismo classico il negativo sotto le vesti di un positivo: “La negatività…in quanto (pensata) altra dal positivo, finisce per costituirsi sempre come un altro positivo”. Questo suo mostrarsi nell’hegelismo come l’esser-presente è ritrascritto: “..dal gioco della differenza ontologica, messo in opera dall’ontologia heideggeriana” che ripropone la logica relazionale di tipo antico. Per Donà, sia Gentile che Heidegger, pur avendo compreso l’errore di fondo della metafisica, quello di aver posto il primato dell’ente, non uscirono dai suoi schemi, in quanto rimasero all’interno di una tematizzazione del fondamento, centrata sulla indeterminatezza dell’origine, la cui negatività: “rimane ancora sostanzialmente inespressa”. M. Donà, “A. Emo e le forme del nichilismo contemporaneo”, in Quaderni di Metafisica, Bompiani, Milano 2006, pp. 1528/1532, già in A. Emo, Supremazia e maledizione, Raffaello Cortina, Milano 1998. In realtà, la filosofia di Emo muove dall’atto e, per questo, coglie il vero R. Gasparotti quando sostiene che la tematizzazione dell’atto è rimasta sostanzialmente invariata da Aristotele a Gentile. Ciò che sembra davvero rilevante in Emo è il suo interpretare atto/potenza sia in termini di alterità, quanto di περιεχειν, nel senso che, nella sua prospettiva, l’atto avvolge e contiene la potenza, la quale pone nel “qui ed ora”. R. Gasparotti, “Il cacciatore di Chimere”, in A. Emo, Quaderni di metafisica, cit., p. 1411/1450. L’atto emiano rinvia ai termini ενεργεια ed εντελεχεια, i quali, stando a David Ross, in Aristotele sono perfetti sinonimi. Nel primo risuona l’etimo εργον (attività o cosa lavorata), nel secondo risuona l’etimo τελος (scopo). Per Aristotele, ricorda Gasparotti, l’atto va pensato in relazione a un tratto rilevante della φυσις, la κινεσις, il movimento. Ma ciò, per il fatto che lo Stagirita tese a coprire la verità non dualista della filosofia presocratica, l’unità degli opposti, volendo conciliare ciò che appariva, cioè il divenire, con il principio d’identità. Al contrario Emo, abbandona l’ambiguità nella quale l’atto è stato pensato da Aristotele a Gentile, sostenendo che la presenza è l’attualità che contiene la sua potenza. Con il che siamo prossimi a quanto Evola sostenne relativamente alla scoperta del nostro esser-qui.
[37] A. Emo, Q. 359, M. Donà, “Il cuore dell’aporetica emiana”, in Quaderni di Metafisica, cit., 1463/1493.
[38] A. Emo, Ibidem.
[39] M. Donà, Il cuore dell’aporetica emiana, cit., p. 1471.
[40] C. Sini, “La poesia delle origini in A. Emo”, in A. Emo, Quaderni di Metafisica, cit., p. 1595.
[41] M. Donà, “A. Emo ai margini del proprio tempo”, in Un mondo sottile, Giorgio Mondadori, Milano 1996, ora in Quaderni di metafisica, cit., p. 1515.
[42] A. Emo, Q. 366 del 1974, ibidem.
[43] C. Sini, La poesia delle origini in A. Emo, cit., p. 1596. Emo distingue le immagini antiche da quelle moderne. Le prime serbavano in sé la dimensione iconoclasta, proprio perché si riferivano al divino inteso come misterium, come enigma insolubile e da preservare, mentre le seconde: “ ..emergono come modelli mistificatori di un’arte pervasa da aspirazioni idealistico-moraleggianti” e per questo sono immagini idolatriche che non presentano il darsi delle cose, che non accettano il mondo per quello che è, cioè come manifestarsi della gratuita potenza del nulla, ma sono espressioni del dover-essere. Laura Sanò rinvia alla distinzione platonica tra εικων ed ειδωλον, immagine vera e rappresentazione ingannevole. Εικων stabilisce una relazione profonda con ciò a cui rimanda, sia pure in termini non meramente sensibili, mentre l’ειδωλον colpisce lo sguardo, lo affascina ma lo distoglie dal modello cui dovrebbe rinviare: “L’arte è quindi fede in un apparire dell’ente che sia apparire dell’Assoluto. Si tratta per l’artista di un cammino iniziatico nel quale riconoscerà l’acquisizione di sé come nucleo di originario disincanto”. L. Sanò, Un daimon solitario, La Città del Sole, Napoli 2001, p. 182. Naturalmente, anche per Emo al tema dell’arte si collega quello della memoria e quindi del tempo, che egli intende come unico atto che si dispiega nella dimensione della presenza, e da non interpretarsi come un’unità di momenti disgiunti, ma come καιρος: “L’eternità è il più perfetto, cioè il più breve degli attimi”. Cfr. A. Emo, Il Dio negativo, cit., p. 183. Passato e futuro sono nell’atto come coesistenza simpatetica di una diade e pertanto: “Lo statuto cui è riconducibile l’atto, è quello di μεταξυ…l’attimo è paragonato da Emo al sole allo zenith”. L. Sanò, Ibidem, p. 192. Con il che, anche rispetto a questo tema, mi pare comprovata la vocazione classica di Emo.
[44] J. Evola, L’Individuo e il divenire del mondo, Arktos, Carmagnola 1976, p. 78.
[45] M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, Adelphi, Milano 1995, pp. 82/83. Il tema heideggeriano della “tirannia dei valori”, dell’origine moderna della cosiddetta filosofia dei valori, è stato elaborato in termini giuridico politici da C. Schmitt nella conferenza che tenne nell’ottobre del 1959, in occasione di uno dei seminari di Ebrach, organizzati dal giurista Ernst Forsthoff. Cfr. C. Schmitt, La tirannia dei valori, Adelphi, Milano 2008, con un saggio di F. Volpi, “Anatomia dei valori”. In esso, l’autore inquadra il tema del valore nella prospettiva antimoderna che stiamo presentando.
[46]J. Evola, L’Individuo e il divenire del mondo, cit., p. 80.
[47] Ibidem, p. 81.
[48] Ibidem, p. 81/82.
[49] Ibidem, p. 86.
[50] Ibidem, p. 89. E’ alla luce di queste posizioni che, nelle pagine successive, Evola giunge a toccare il tema del rito scarificale umano. Il rito rinvierebbe, tanto nella tradizione occidentale che in quella orientale, alle divinità nere, colore che, nell’esoterismo, richiama il lato nascosto delle potenze metafisiche, alla loro espressione pura, antecedente a tutto ciò che è particolare manifestazione. Il tono generale che l’autore impone alle ultime parti del saggio su Dioniso, è certamente eccessivo. Forse, i rituali cui si riferisce, andrebbero interpretati sub specie interioritatis, quali allusioni a gradi diversi di realizzazione misterica.
[51] G. Colli, La Sapienza greca, Adelphi, Milano 1977,vol. I, p. 15.
[52] Per l’approfondimento di queste tematiche, rinviamo il lettore a K. Kerény, Dioniso, Adelphi, Milano 2007. L’opera rappresenta una delle monografie più esaustive sul dio. E’ fondata sull’esegesi di numerose e varie documentazioni archeologiche, nonché sulla comparazione storico-religiosa. Sul tema del collegamento del dio alla fertilità possiamo semplicemente ricordare che, allo stato attuale, mancano nei ritrovamenti archeologici rappresentazioni itifalliche della divinità e ciò chiarisce come essa simbolizza il distacco dall’ερος meramente riproduttivo, una forma cioè di gnosi e di entusiasmo non semplicemente mistico.
[53] Così, su questo tema Colli: “Il subentrare al culmine dell’eccitazione, anzi come risultato ultimo, trasfigurato, del suo più intenso scatenarsi, di una rottura contemplativa, di un distacco conoscitivo… l’estasi non è il fine dell’orgiasmo dionisiaco, ma soltanto lo strumento di una liberazione conoscitiva”. Cfr, G. Colli, Op. cit., p. 19.
[54] È interessante far rilevare come secondo Colli, l’irruzione del dionisismo produsse, nella Grecia arcaica, un ripensamento in senso cosmico, del rapporto immediatamente politico di questo popolo con il mondo. Su ciò, cfr, G. Colli, Filosofi sovraumani, Adelphi, Milano 2009.
[55] A. Emo, Il Monoteismo democratico, B. Mondadori, Milano 2003, p. 26/27.
[56] A. Emo, Ibidem, p. 29.
[57] R. Gasparotti ci ricorda che: “Il termine greco che indica croce è σταυρος, il cui etimo è riconducibile al verbo ιστημι, stare.. il termine latino crux sembra derivare dall’assimilazione sincopata del termine colux, che equivale al greco σκολοψ, indicante il palo ben piantato nel terreno…la crux, per dirla con Heidegger, è un tra, das zwischen, è ciò che stando tra cielo e terra, riunisce presso di sé, nel suo modo, terra e cielo divini e mortali”. In, R. Gasparotti, “L’immagine iconoclastica”, A. Emo, Quaderni di matafisica, pp. XXV/LXXII. La croce in Emo è, al medesimo tempo, soglia, immagine e origine che rinvia alla morte del dio negativo e alla sua resurrezione, allude cioè all’eternità del cosmo.
[58] Così Emo: “Il dio tribale degli ebrei era diventato il dio unico…nel periodo storico in cui gli dei divenivano dei olimpici…In cui gli antichi culti agrari erano dimenticati nella luce della nuova religione olimpica e tendenzialmente monoteistica… Ora i culti misterici che appaiono nel periodo ellenistico e romano… sono un ritorno all’antico, una reazione, un ritorno all’epoca preolimpica… Ciò che mancava a questi culti olimpici, monoteistici e razionali… era il momento negativo”. In Il Monoteismo democratico, cit., p. 70/71.
[59] Ibidem, p. 82.
[60] A. Emo, Il monoteismo democratico, cit., p. 7/8.
[61]A. Emo, La Voce delle Muse, Marsilio, Venezia 1992, p. XXIII. Emo è naturalmente molto critico anche nei confronti del comunismo come di ogni forma monoteistica di pensiero. Ciò lo si evince, a mo’di esempio, tra i tanti che avremmo potuto trarre dalle sue opere, dal seguente aforisma: “La fede moderna comunista e esistenzialista e anche democratica è una fede immediata nel sociale… analogia con l’Islam… Immediatezza del divino del trascendente”. A. Emo, Il monoteismo democratico, cit., p. 47. Al fascismo, al quale aveva aderito con entusiasmo, Emo rimprovera di aver tradito il suo iniziale aideologismo, il suo attivismo pratico, per trasformarsi in forma ideologica valoriale, spesa nella difesa della civiltà umanistica. Cosa che portò il regime a una opzione politica di tipo guelfo, naturalmente aborrita da Emo, alla luce delle sue posizioni anti-cattoliche.
[62] R. Gasparotti, “Note sul pensiero di A. Emo”, in Quaderni di metafisica, cit. p. 1410. Su questo tema si confronti anche, G. Hermet, L’inverno della democrazia, Settimo Sigillo, Roma 2010, prefazione dello scrivente.
[63] J. Hillman, Saggio su Pan, Adelphi, Milano 1977, p. 11.
[64] Α. De Benoist, L’eclisse del sacro, Sette colori, Castrovillari 1992.
[65] J .Beaufret, Dialogo con Heidegger. Filosofia greca, I, Egea, Milano 1992, p. 196, trad. it. di G. Zaccaria. Questa pienezza è stata esperita dal pensiero greco nella scoperta del περας, del limite, non inteso, modernamente, come negazione, ma come posizione essenziale e primaria. In particolare, in Aristotele è l’integrazione di δυναμις e di ενεργεια a produrre il limite. Sui rapporti tra limite e sfondo abissale, origine spazio-temporale, si veda M. Heidegger, Contributi alla filosofia, Adelphi, Milano 2007, a cura di F. Volpi, trad. it. di A. Iadicicco.
[66] J. Beaufret, Op. cit., p. 32.
[67] Ibidem, p. 88.
[68] Al riguardo, ci paiono riduttive le considerazioni di Jacques D’Hondt, tese a leggere gli aspetti “segreti” di Hegel e dell’idealismo, in chiave esclusivamente riferibile a significati e simbologie di tipo massonico e rivoluzionario. In realtà, queste problematiche, presenti soprattutto nel giovane Hegel, nascono nel suo confronto diretto con le posizioni dell’amico Holderlin e dalle sue sollecitazioni speculative. In particolare, i versi del componimento poetico hegeliano Eleusi, alludono effettivamente a una gnosi di tipo fenomenologico misterico, non semplicemente riducibile alla simbologia massonica o, come lesse Dilthey, al panteismo mistico. Residui di tali intuizioni giovanili sul mondo greco, possono esser ancora rilevate nell’Hegel della Fenomenologia e nella tematizzazione dei rapporti di Essere e Nulla.. Cfr J. D’Hondt, Hegel segreto, Guerini e associati, Milano 1989.
[69] Cfr W. J. McGrath, Arte dionisiaca e politica nell’Austria di fine ottocento, Einaudi, Torino 1986. L’atteggiamento metapolitico dei giovani del gruppo, viene qui analizzato in ogni suo aspetto La terza sinfonia di Mahler, letta in tutte le sue parti e nelle strutture più rilevanti della grammatica musicale sulla quale è stata costruita, è presentata come l’opera di maggior livello compositivo, dopo Wagner, prodotta nell’ambito di ricerca propria dell’arte tragico-dionisiaca. Al contrario, l’esperienza politica di V. Adler, che attraversò le varie famiglie pangermaniste e socialiste del periodo, è un primo esempio di estetizzazione della politica. Su questo tema consigliamo la lettura, con riferimento a un contesto storico diverso, di M. Ledeen, D’Annunzio a Fiume, Laterza, Roma-Bari 1975.