Da dove viene Evola? Qual è l’ humus culturale in cui è cresciuto e di cui si è nutrito il suo genio precoce? Chi e cosa lo ha influenzato? Insomma: qual è l’ambiente culturale europeo in cui ha mosso i primi passi del suo pensiero poetante e della sua pratica pittorica?
Non a caso abbiamo intitolato questo giovanile, ma niente affatto superficiale scritto di Gian Franco Lami: “ Premessa a una lettura di Evola ”. Gli interrogativi posti all’inizio di questo nostro brevissimo invito alla lettura non sono infatti di poco momento. Tanto più che il filosofo romano, nel suo Cammino del cinabro , afferma di dover “pochissimo all’ambiente, all’educazione […]”.
Conviene subito notare che quella di Lami non è una biografia evoliana ma potrebbe essere una premessa alle varie biografie – o dovremmo dire “tentativi biografici”? – che da anni si contendono l’iperbole esistenziale di questo pensatore nato- Dada . Un’anticipazione quindi, che nella serietà dei suoi riferimenti e delle sue notizie, invita a calare Evola nella sua storia e non a vederlo quasi fosse un “carciofo nato nel deserto”. Una premessa che, in quanto tale, si propone quale terra ferma, da cui avvistare il gran mare dell’opera evoliana. Prima di tuffarsi in esso…
Il racconto evoliano di Lami, comincia infatti dopo la parte che di seguito presentiamo e che è tratta da un suo volume del 1980 (“ Introduzione a Julius Evola ”), ormai introvabile, edito da Volpe. Si tratta di una rielaborazione della sua tesi di laurea che ebbe come relatore Augusto Del Noce, nel 1974.
Questo lavoro fu da lui svolto con la supervisione del “maestro della tradizione”. Lami ha parlato in questi termini della sua esperienza di studente: “ L’ho conosciuto personalmente e ho frequentato la sua casa dal 1972 fino al 1974, quando è morto. Fu, nel complesso, una bella esperienza di vita e di pensiero. Ancora conservo alcune pagine della mia tesi corretta da Evola: egli rivedeva quello che scrivevo, sempre riducendone l’enfasi ”.
A noi, ora non resta che leggere queste pagine apprezzandone la sobrietà e la ricchezza di informazioni.
Alessio de Giglio
Agli inizi del secolo [ventesimo], una ventata di follia innovatrice travolse l’Europa e il mondo intero.
Dovunque si propagò un clima di rivolgimento politico e culturale, che caratterizzò i primi decenni del Novecento e diffuse un’ansia di rinnovamento, prima, attraverso tutto il Vecchio Continente, poi, facendo sentire le sue ripercussioni fin oltre l’Oceano.
È il momento d’inizio dell’ Era della contestazione, con tutti i drammatici risvolti che essa dovrà contenere.
Lo spirito della rivolta fatalmente andava a intaccare le impalcature istituzionali dei vecchi regimi, così come già sconvolgeva i sentieri inosati della cultura tradizionale.
Naturalmente la Francia fu la prima a fremere, mentre Parigi diveniva il centro della rivoluzione artistica. La Ville Lumière fu il passaggio obbligato per quanti aspiravano a una posizione di riguardo nei «salotti bene» delle varie capitali europee.
Il mito del simbolismo francese attraeva tutti gli scrittori e gli artisti alle prime esperienze. La terra di Verlaine e Rimbaud, di Mallarmé e dell’iniziatore Baudelaire, accoglieva allora le peregrinazioni dell’enigmatico Ezra Pound, del bizzarro irlandese Joyce. Ma, a Parigi c’erano anche Eliot e David Lawrence… Sulla scia del lirismo musicale di «Brise marine», di «Apparition», di «Hérodiade», dietro fluttuanti analogie di immagini e di suoni, si andava creando una poesia nuova, che accentuava il valore evocativo della parola, e dava una diversa dimensione all’individuo. Era il rinnovamento della letteratura, o meglio, era il compiersi di quel processo di scardinamento degli antichi canoni, già iniziato con l’avvento dell’epoca del romanzo.
La lingua francese apriva le porte delle case editrici: fu più di un semplice modo di esprimersi, divenne il solo mezzo per partecipare certe sensazioni «nuove»… Tutti i giovanissimi rappresentanti delle più svariate correnti artistiche lo intuirono e seppero farne uso, sulla scia di una moda entusiasmante.
Nel campo della pittura era il momento dei «fauves», che rappresentavano il compimento e l’esasperazione di quella trasformazione già decisamente avviata dall’impressionismo. I motivi cromatici di un Pissarro, o di un Renoir, venivano contrapposti alle opere di Derain, improntate a un arcaismo dal vago contenuto classicheggiante, di Matisse, di Marquet, dell’olandese Van Dongen e alla marcata alterazione formale di un Vlaminck. La violenza dei colori e la tendenza a appiattire le forme eliminarono, in questi pittori, ogni prospettiva e volume, in reazione alle passive adorazioni formali del passato.
Nel 1908 già si parlava del «cubismo», di una «sintesi dei valori volumetrici e concettivi delle cose», in contrapposizione al cromatismo impressionista. Braque e Picasso erano il simbolo di una rottura completa con i sopravvissuti valori tradizionali del figurativo. L’artista si spingeva alla ricerca di un concetto universale delle cose, nella loro esistenza spaziale, in contrasto con i processi analitico-divisionistici dell’impressionismo (Soffici, Delaunay, ecc.).
Nel secondo decennio del ‘900, futurismo e movimento Da-Da lanciarono il richiamo delle loro parole d’ordine. Picabia, Tristan Tzara, Breton, Soupault e altri confluivano così in una medesima corrente e finirono con il creare la premessa teorica e pratica all’avvento del surrealismo. Pur, tra essi, non è assolutamente possibile tracciare schieramenti netti. Nel dadaismo, in particolare, la decisa inesistenza di concrete finalità e il programma esclusivamente negativo e distruttivo, non concedevano la possibilità di alcuna alternativa, che esponenti e artisti dovettero cercare in più consistenti ideologie.
L’arbitrarietà di qualsiasi rapporto tra il pensiero e l’espressione sfociò, dunque, nell’automatismo surrealista, nell’arte del sogno e nelle relative implicazioni psicoanalitiche.
Il secolo iniziava all’insegna delle esposizioni mondiali. Le nuove tecnologie e i rivoluzionari ritrovati scientifici alimentavano le ambizioni, il genio e la fantasia dei popoli.
Nell’ambito dell’architettura si superò facilmente la fase del monumentale, per approdare in breve sul piano della costruzione semplice e ardita. Il Sant’Elia gettava le basi di nuove concezioni, fondate sul razionalismo, sul calcolo, sulla funzionalità, abolendo ogni sovrastruttura decorativa e segnando il definitivo tramonto del Liberty. Era il trionfo dei nuovi materiali. Iniziava la corrente di rinnovamento architettonico che doveva porre in luce, dopo la guerra, i nomi di Doesburg, del francese Mallet-Stevens e del cosmopolita Le Corbusier.
Ma il quadro non sarebbe completo senza almeno un accenno ai musicisti. Anche qui, infatti, la trasformazione non fu meno radicale… Sempre a Parigi, nel 1910, debuttò Strawinsky con «L’oiseau de feu». Seguirono momenti di stridente contrasto, con la prima rappresentazione della «Sagra della primavera» (1913).
Intanto, faceva la sua comparsa, pur tra mille difficoltà, la scuola dodecafonica di Albano Berg, Antonio von Webern e di Arnoldo Schoenberg, il quale, tuttavia, dopo le esperienze del «Pierrot lunaire», ritornava alla concezione post-wagneriana, da cui era partito.
L’atonalismo di Debussy ruppe, poi, definitivamente con la fisionomia armonica tradizionale e scosse dalle fondamenta i valori timbrici e delle assonanze, fino ad allora considerati intoccabili. Comparivano Ravel, De Falla e Dukas, con le loro composizioni colorate e bizzarre…
In conclusione, questa nuova generazione di artisti crebbe respirando l’atmosfera di un colossale fermento rivoluzionario. Movimenti di idee e di uomini nuovi, indirizzati a una vera e propria rivolta contro la realtà circostante. Si osservò la compagine politica di più di uno Stato sfaldarsi sotto la pressione di una crisi profonda e di una critica totale. Ognuno provò il desiderio di distruggere e di rompere con il passato, unitamente a una confusa volontà di ricostruire su temi nuovi e inusitati…
L’Europa andava caricandosi del potenziale di idee e di energie, che dovrà trovare sfogo nel conflitto di due generazioni.
Il futurismo e il suo ambiente
Si fa giustamente nascere la polemica dalla possibilità di collegamento esistente tra il futurismo e i precedenti tentativi francesi, i quali, muovendo dal Romanticismo, attraverso Baudelaire e Rimbaud, giungono fino a Mallarmè, al belga Verhaeren e all’americano Whitman.
La questione, tuttora dibattuta, è complessa.
È innegabile che una certa spinta di rinnovamento, per molti sensi rivoluzionario, era da lungo tempo ormai diffusa nella «morta gora» della poesia ed è verissimo altresì che i francesi, e il belga, e l’americano che sopra abbiamo ricordati ne fossero i maggiori esponenti e gli esempi più chiari. A chiunque legga le pagine di «Villes illusoires», o «Les flambeaux noirs» , o ancora «Les villes tentaculaires» non può sfuggire il senso della irrequietezza nella quale Verhaeren si dibatteva, e quali sentimenti di profonda insoddisfazione lo animassero, fino al giorno della sua morte. Finì travolto da una vettura ferroviaria, in uno dei tanti viaggi che intraprese attraverso l’Europa, dopo l’occupazione del Belgio, nel tentativo di sensibilizzare le platee internazionali alla sciagura della sua patria.
Lo stesso si dica per la rude incisività di Whitman, che cantò gli ideali della democrazia e della fratellanza umana, il libero sviluppo dell’individuo nella espansione della umanità, l’esaltazione e il terrore della vita a contatto con la natura.
Così, è altrettanto innegabile che le voci e gli sforzi tra loro disparati e lontanissimi – spesso in antitesi (Rimbaud e Whitman, per esempio) – poterono offrire, in certo modo, al giovane Marinetti un punto di riferimento, o, quanto meno, il punto d’inizio per il suo futurismo. Certo è, però, che il futurismo non giunse mai a una vera e propria identificazione con la persona del suo ispiratore, anzi, i controversi motivi di derivazione parigina presenti in Marinetti faticarono non poco a trovare risonanza all’interno del movimento e vennero accolti solo da quelli che ne fecero esperienza personale, fino a viverne interiormente il profondo significato.
Capitò così che Evola ebbe modo di conoscere Marinetti, a sufficienza per arrivare a segnare una chiara linea di separazione tra sé, lui e tutti i suoi seguaci. E questo significò anche la sua ribellione agli atteggiamenti imposti dai più tenaci sostenitori del simbolismo francese. Non solo. Ma dobbiamo aggiungere che certi «suggerimenti» giungevano talmente distorti o in ritardo rispetto ai modelli originari, da mettere seriamente in dubbio la necessità di un collegamento.
A chi legga Whitman, ad esempio, non può sfuggire, la rara potenza del suo slancio poetico; il suo spirito è ribelle ad ogni vincolo o disciplina; ma questo soltanto non basta a farne una sorta di ispiratore del futurismo. C’è, per di più, il fatto che l’americano professa doti di democratico e convinto proibizionista. Sotto la bandiera della libertà individuale, insomma, finisce con il contrabbandare le problematiche di una visione collettivistica; e questi spunti umanitari e di impegno sociale confermano la sua sostanziale estraneità ai temi di ispirazione marinettiana…
Altrettanto si dica per Verhaeren. La sua esaltazione del lavoro, le sue metropoli caotiche e le sue officine scintillanti e rombanti sembrerebbero richiamare molto da vicino le eccentriche immagini della rappresentazione futurista. Ma nel belga ricorrono frequenti i motivi di impronta socialista, si fa insistente il riferimento a quei «diritti dell’uomo», che possiamo ritrovare in altri scrittori italiani del momento, ma che non ispirano mai Marinetti e i suoi compagni d’azione.
Se il futurismo ha cantato la macchina, le metropoli, le invenzioni, il dinamismo, ciò è avvenuto soltanto per una volontà di originalità assoluta, per un violento desiderio di contrasti e di passioni, proprio in antitesi con l’idea del Verhaeren e del Whitman, i quali sembrano avere posto la loro ribellione artistica al servizio di una concezione politica…
In generale, si deve riconoscere che in Italia, pochi furono in grado di recepire un discorso autenticamente rivoluzionario, mentre, per il resto, l’ambiente culturale sembrò mancare assolutamente di sensibilità nella percezione di nuovi messaggi. Una eccezione, che vale la pena di ricordare, è rappresentata dall’avventura di «Poesia», la rassegna letteraria internazionale, che Marinetti fondò, nel 1905, a Milano, per curare l’ampliamento e la diffusione delle sue idee. Erano con lui Sem Benelli e Vitaliano Ponti, che collaborarono alla redazione dell’opera. E fino al 1909, anno in cui apparve l’ultimo numero di «Poesia», si volle offrire al lettore il modo di cogliere gli spunti, gli accenni, e i motivi primi degli «ultimissimi» da tutto il mondo. Nelle pagine della rassegna trovarono posto le composizioni di poeti ormai superati e del più vieto tradizionalismo, accanto alle nuovissime voci dei giovani ancora sconosciuti. Ed era proprio questa promiscuità, talvolta irritante, a dare carattere alla pubblicazione, segnando delle evidenti e naturali distanze, in maniera ben più efficace che non lunghe dissertazioni critiche. Si incontravano gli scritti di Palazzeschi, insieme con quelli di Lipparini e Govoni, quelli dell’ormai dimenticato Guido Mazzoni a fianco di Folgore e di Buzzi, o della poesia del popolaresco Ferdinando Paolieri.
Tutto questo esprime il desiderio di un radicale sconvolgimento, il senso di una tensione ribelle, che serpeggiava già decisamente nei consueti canali culturali dell’epoca.
In effetti, poi, gli spunti originali erano alquanto rari, quasi fugaci accenni, che troviamo solo in talune pagine, come nelle violente immagini di prosa del romanzo «Esilio» del Buzzi, o nei versi del sonetto «Incubo velato» del Cavacchioli. Lo stesso Marinetti, che, fin dal 1902, aveva operato le prime esperienze di adattamento in italiano del verso libero francese, non conseguì risultati di rilievo prima del 1909… Certo, con «La conquête des étoiles » (1902), con «D’Annunzio intime» (1903), con «Destruction» (1904) e «Le roi Bombance» (1905), Marinetti riuscì a guadagnarsi una certa notorietà in Francia. Si rivelò a Catulle Mendès e a Gustave Kahn, in uno dei «samedis populaires» di Sarah Bernhard. Di fatto, però, si dovrà aspettare il tempo delle «Parole in libertà», e solo con il secondo decennio del secolo il movimento potrà dirsi aver acquisito piena coscienza di sé e della reale portata innovatrice dei suoi caratteri. Fino a quel momento la maggior parte dei rappresentanti della corrente stentò a tener dietro all’evolversi della situazione che s’agitava in Europa e non ricoprì ruoli portanti nell’avanguardia letteraria.
In Italia, d’altronde, Baudelaire, Mallarmé, Claudel e Verlaine erano poco conosciuti; Rimbaud, Gustave Kahn, Laforgue, Paul Fort e James, quasi del tutto ignoti. Per questo, spetta a Marinetti il merito di aver superato l’assurdo, strappando alle gelosie di pochi studiosi la conoscenza di tanta espressione poetica.
Era l’inizio di quella campagna letteraria che si sarebbe svolta attraverso la Penisola, a diffondere le operazioni dei francesi e dei movimenti di idee in cui essi si identificavano[1].
Si moltiplicavano le conferenze, i dibattiti, gli incontri. Con Marinetti, abile parlatore e studioso poliedrico, ha inizio quello «Sturm und Drang» che, di lì a pochi anni, doveva trovare alimento non solo nel futurismo, ma, specialmente in Toscana, nel «Leonardo» di Giovanni Papini, nel «Regno» di Enrico Corradini, nell’«Anima» di Amendola, fino a «La Voce» e a «Lacerba». Questo fermento condusse decisamente a un forzato svecchiamento della mentalità italiana e creò le premesse per la partecipazione alla prima guerra mondiale.
I giovani, sensibili ai richiami dell’arte e della cultura, mostravano un interesse sempre più appassionato per certe espressioni della poesia internazionale. Tra questi sarà anche Evola, a mettere in luce le affinità di uno spirito originale e irrequieto. Ed egli fu, in un primo tempo, intensamente, un artista, poeta e pittore. Come tale, si nutrì e visse di quelle sensazioni che liberamente, ormai, alitavano nei circoli culturali[2].
Rimbaud insegnò e distribuì i colori del più tragico simbolismo e suggerì, in un anelito di liberazione dalla materia, le allucinanti ricerche capaci di esasperare le facoltà intellegibili e sensibili. I punti di contatto con certi motivi futuristi sono evidenti, anche se non si può concludere affrettatamente sulla esistenza di veri e propri stabili collegamenti. C’è chi arriva a citare la poesia rimbaudiana «Voyelles» (A noir, E blanc, I rouge, U vert, O bleu), per dimostrare che le «Parole in libertà» di Marinetti muovono da così lontano… Noi non daremo soluzioni. Ci piace, tuttavia, accostare ai tentativi precedenti le immagini evoliane, projettate nella dimensione di intuizioni esaltanti (…sur la grand plaque de zinc du ciel), di sensazioni visive, uditive… tattili (A levante ora il cielo si diluisce – ha dissonanze in rosso – mentre giungono lentamente impolverati – suoni flautati). Emozioni efficacemente tradotte in luci e colori.
Lo stesso può dirsi della poesia di Mallarmé. Il suo raffinato ermetismo sembra avvicinarlo alla stesura scarna e concitata della prima produzione evoliana. Il rapporto, è, anzi, evidente, ma mai artificiale. Non è, invece, la stessa cosa per quanto riguarda il contenuto dei manifesti futuristi, che si susseguirono in quegli anni.
Evola, in effetti, fece suoi i motivi dell’arte giovane e li coltivò con delicatezza e buon gusto. La sua versatilità gli permetteva una certa indifferenza nei confronti dell’atmosfera chiassosa e plateale imposta dal futurismo. Attraverso l’azione promossa da Marinetti, egli conobbe, sì, la poesia francese, ma non andò oltre. Rifuggì dalle imitazioni e, nei risvolti nazionalistici, retorici e di cattivo gusto delle correnti di moda, che finivano tutte con l’identificarsi nella compagine futurista, trovò ragioni sufficienti per un allontanamento definitivo.
L’indirizzo marinettiano doveva, invece, rapidamente involversi nel clima di euforie patriottarde d’ante-guerra. Dalla pubblicazione del primo manifesto futurista allo scoppio del conflitto dovevano trascorrere ancora cinque anni: un quinquennio di profondi sconvolgimenti. Poi, nel rogo inesorabile della tragedia bellica, sarebbero andati a bruciarsi i residui di una mentalità e di una civiltà ormai esaurite e consumate, sotto ogni aspetto. La furia delle armi disperse gli avanzi mummificati di un passato che non aveva più il diritto di prosperare. È la fine di un’epoca…
Oggi, a distanza di più di sessant’anni da quegli avvenimenti, ci si mostrano, in maniera chiara, le cause e taluni effetti. Questi, già in quel tempo, tuttavia, presentavano evidenti segni annunziatori. Era generale e netta una visione del dissolvimento dei valori dello spirito, che, in Italia, progrediva in mezzo a deviazioni politiche e teorie utopistiche mal digerite, le quali miravano, sull’esempio dei paesi da cui provenivano, alla creazione di una realtà massificante, permeata di ipocrisia utilitaria e di un «quietismo torpido e vile». Lo spettacolo offerto dal vago culturame di quel tempo ci presenta un mondo di intellettuali di mestiere, ugualmente ridotti a difendere le loro conquiste libresche da ogni forma di critica al disquisire colto…
L’Italia dei primi del secolo – è necessario ricordarlo – è l’umile Italia delle triplice, l’Italia crociana per eccellenza. Croce è, e voleva essere, l’egemone, il leader – come più volte affermò Gramsci – della cultura di quel periodo; e sembra più volte riuscirvi, presentandosi come il pensatore più articolato e sintetico della sua epoca. Dalla fondazione della «Critica», il suo sforzo fu sempre diretto a porsi nel bel mezzo di ogni questione culturale, per arrivare poi a dominarla e gestirla da padrone.
Croce, nel campo della cultura, sembrò proseguire lo slancio di amalgama già iniziato dal De Sanctis, e svolto in parallelo, sul piano politico, da Giolitti.
È, sì, il tempo, del «Leonardo» di Giovanni Papini, il quale svolge la sua audace funzione di rottura, tentando la via di una deviazione dall’indirizzo filosofico della scuola napoletana. È anche il tempo della «Voce» fiorentina di Giuseppe Prezzolini.
Queste riviste divennero immediatamente le punte d’assalto del crocianesimo. Si può dire che tutti i giovani intellettuali delle generazioni di fine Ottocento furono educati nell’ambiente preparato dal Croce. Essi diventarono crociani.
Tutt’intorno, in uno stato di accentuata prostrazione morale, si era giunti all’inaridimento delle dispute e dei contrasti ideologici. Lo spirito si immiseriva in un «neoidealismo» di ispirazione hegeliana, che creò una frattura insanabile a livello umano e aprì le porte alle diffuse interpretazioni materialistiche dell’esistenza. Caos pericoloso, dominato da un falsissimo senso di benessere assunto alla importanza di una meta nobile, da raggiungere e perfezionare.
Ma, nel programma della «Critica», si anteponeva chiaramente una professione di equilibrio. Pur nell’intento di suscitare nuove energie e intelletti nuovi, quindi, Croce spiegò un’azione di componimento e tentò di vincolare le espressioni ormai disperate della giovane letteratura.
Questo, naturalmente, apparve come un tradimento bell’e buono. Il Maestro negava la fiducia promessa e si allontanava dalla strada che lui stesso aveva indicata, e pel tramite dei suoi diretti emissari.
Si preparò così la critica al «Leonardo» e alla «Voce». Croce fu estremamente severo nei confronti dei suoi discepoli e non risparmiò i suoi strali contro quelle giovani menti irrequiete, che subivano il fascino di feconde folgorazioni intuitive, senza avere la capacità di tradurre nel rigore di una espressione logica le loro idee e i loro pensieri.
Tuttavia è innegabile il contributo portato dalle riviste fiorentine, che produssero lo sforzo di una decisa sterzata al timone della fiacca cultura contemporanea.
Ogni esperienza fu tentata in campo speculativo, originando il senso di una profonda dissacrazione, nel clima di conformismo in cui viveva l’«Italietta» conservatrice del ‘900. Dal nazionalismo all’imperialismo lirico, dal sindacalismo utopistico alle espressioni ingenue e tentatrici del neo-idealismo, dall’arte decadente a quella futurista, le manifestazioni di disagio e di impegno ideologico si susseguirono le une alle altre, a testimoniare l’esigenza di una reazione, il tentativo continuato di sprovincializzare la vita italiana.
Da qui, dal piano dell’incitamento gobettiano a lasciare affiorare le malattie nazionali, dalla crisi terribile dei personaggi e degli ideali del Risorgimento, Croce si era imposto quale avanguardia di nuove scoperte: Croce l’ottimista, Croce il solitario.
Poi… la delusione. La dura prova non fu superata e il Maestro apparve aver tradito la fede di quanti si raccolsero intorno a lui.
Evola, molti anni più tardi, dopo la sua morte, stigmatizzò la figura di Croce, in una frase che sembra conservare ancora l’animo di quello sdegno giovanile: «Da parte mia – ci dice ne Il cammino del cinabro – se in lui conobbi una maggiore signorilità e chiarezza rispetto al Gentile, non potei però non constatare il basso livello di pensiero puramente discorsivo, che, alla fine, doveva abbandonare il piano dei grandi problemi speculativi, per disperdersi nella saggistica, nella critica letteraria e in una storiografia di orientamento laico-liberale».
L’amarezza e l’astio giovanile si tradussero presto in aperta rivolta; e di questa rivolta, delle mille sue sregolatezze e vanità, visse il mondo culturale di un decennio, che comprese la prima guerra mondiale come un suo parto organico e trovò l’espressione sua più sdegnata nelle folli manifestazioni del futurismo.
Veniva indicata una via nuovissima da seguire per riabilitare lo spirito e esaltare il senso cosmico della vita; si dichiarava la verità scientifica sostanza poetica; si consacravano la velocità e la simultaneità…
Marinetti si era fatto promotore di un’azione incisiva e spregiudicata, volta a scuotere le menti intorpidite dall’apatia e dall’inganno. Il suo tentativo si spinse fino a cercare nuovi mezzi d’emozione e di vita: fu un’esplosione continua di scherni e di rabbia contro tutte le forme di grettezza e di conservatorismo. Ecco il significato più vero del futurismo… In esso fu il principio di quel «nuovo», attorno a cui si sarebbero progressivamente innestati sviluppi, fatti, avvenimenti e teorie, che finirono con il produrre una reale consistenza storica. Unica alternativa stabile al caos più tumultuoso, da una parte, e alla morte gelida della ufficialità, dall’altra. Ecco il motivo «shocking» del primo manifesto futurista… D’altronde, che tipo di reazione poteva suscitare un programma di attività e di pensiero contenente (figuriamoci!) un vero e proprio incitamento alla guerra…? «Noi vogliamo glorificare la guerra sola igiene del mondo»: è la frase che, senza dubbio, lasciò maggiormente sconcertati, a seguito della quale si costituì intorno a Marinetti un’atmosfera di ironie e violenze d’ogni genere. Violenze politiche, oltre che da parte di quel pubblico, che accorreva sempre più numeroso alle serate futuriste.
Le riviste della « scapigliatura »
I primi venti anni del nostro secolo videro ingaggiarsi una severa lotta, senza quartiere, contro i sostenitori e gli esponenti delle vecchie mode letterarie, e della passata cultura in genere. In opposizione alla realtà pedante e accademica andava a forgiarsi un nuovo tipo di intellettuale, «militante», ansioso di tradurre in pratica le premesse di un rinnovamento spirituale e ideologico.
Il culmine di questo singolare fenomeno è segnato dalla comparsa in Firenze de «La Voce», fondata da Giuseppe Prezzolini nel 1908. Già, dopo appena quattro anni, nel 1912, la pubblicazione aveva raccolto intorno a sé validi e giovani elementi, di tempra eccezionale, e portatori di preziose dosi di vitalità all’interno delle molteplici iniziative. Era il tempo delle campagne in appoggio alla scultura di Medardo Rosso. Ardengo Soffici, che curò e sviluppò la pagina letteraria de «La Voce» nel primo quadriennio, creò il favore delle nuove generazioni per l’impressionismo. D’altronde, tutta la rassegna si ispirava a motivi artistici d’avanguardia. L’autentico tema conduttore di quei giorni era la polemica, mordace, arrabbiata, continua, sempre diretta allo svecchiamento, alla sostituzione dei moduli artistici non più adeguati a esprimere le ansie, gli amori, le passioni del nuovo ciclo.
Il periodo in cui Prezzolini subì l’influenza del pensiero crociano, fu uno dei più interessanti nella vita della rivista. Esso dimostrò quanto potente fosse l’autorità di quel filosofo, che, per buoni quindici anni, dal 1900 al 1915, permeò di sé e dei suoi progetti l’ambiente culturale italiano.
Fece seguito il tentativo gentiliano di trasporre la speculazione idealista nella pratica e nella vita. Accanto allo stesso Gentile, i componenti del corpo redazionale, Mario Novaro, Giovanni Papini – che dal 1903 al 1907 aveva diretto il «Leonardo» -, Amendola e molti altri, diedero il loro pratico contributo, traducendo in termini di preoccupazioni critiche, moralistiche e politiche l’impegno di un pensiero attivo.
Molti altri scrittori nuovi si rivelarono attraverso le colonne della rivista o mediante i «Quaderni della Voce», creati con lo scopo di intensificarne l’azione.
I rapporti con la cultura ufficiale – non occorre dirlo – furono sempre oltremodo tesi, per la particolare virulenza di alcuni elementi, tra cui, principalmente, Soffici e Papini. D’altra parte, che Soffici nel 1912 criticasse taluni atteggiamenti e talune manifestazioni degli artisti contemporanei, era più che logico. Egli era stato a Parigi e vi aveva soggiornato per quasi dieci anni, avendo vissuto personalmente gran parte di quelle esperienze, che ora vedeva trasportate in Italia, e che, certo, non potevano apparirgli originali… Gli «scontri» verbali e fisici si susseguivano con impressionante frequenza. Ben presto Soffici e Papini mostrarono la loro insofferenza anche nei confronti della impostazione che Prezzolini dava alla rivista. Il loro estremismo era deciso e inconciliabile.
Si giunse così alla rottura. Il 21 febbraio 1913 presero ambedue parte al pomeriggio futurista del teatro Costanzi, dove Papini pronunciò quel discorso contro Roma, da cui partì il programma per ogni nuova futura realizzazione.
In quello stesso anno fondarono «Lacerba». Intorno ai due, ormai inseparabili, si era creato un alone di grande popolarità. In particolare, i giovanissimi, guardavano con fiducia a Papini, che, per la sua eccezionale capacità inventiva e per la incisività della sua azione personale, assunse un ruolo preminente, chiamando a sé le attese della nuova cultura.
Anche per Evola, egli fu al centro dell’unico, vero Sturm und Drang , che la nostra nazione abbia conosciuto: «[…] A lui e al suo gruppo si deve il nostro venire a contatto con le correnti straniere più varie e interessanti del pensiero e dell’arte d’avanguardia, con l’effetto di un rinnovamento e di un ampliamento d’orizzonti» ( Il cammino del cinabro, pag. 16).
Dal «Leonardo», a «La Voce», a «Lacerba», l’azione di Papini e dei suoi fedelissimi mise a soqquadro buona parte del mondo della cultura. Lo stesso futurismo se ne giovò, pur rimanendo, sostanzialmente, al di sotto di certi limiti e di certe realizzazioni. Ma se ne giovarono, in assoluto e soprattutto, i giovani, tutti i giovani, per i quali veniva alla luce una realtà, antica e moderna, di significato non comune, attraverso collane editoriali come la «Cultura dell’anima», attraverso scritti particolarmente efficaci, come il papiniano «Un uomo finito»…
Il risultato era evidente, ma, dietro l’apparato scenografico, si muovevano anche altre figure, irraggiungibili e misteriose. La loro presenza era impalpabile, ma reale. Personaggi di cui tutti sapevano, ma nessuno parlava. Coordinatori che ispirarono, senza essere visti, mille contatti e mille scoperte individuali.
Questo stato di cose riguardò anche Papini, per un certo lasso di tempo. Visse vicino a lui in quegli anni, Arturo Reghini: enigmatica personalità di intellettuale, iniziatore di molteplici attività nel campo delle lettere e delle culture umanistiche in generale. Del suo magnetismo rimase vittima una gran parte della gioventù impegnata del momento, che si vide così fatalmente sospinta verso un tipo di interessi di carattere spirituale e esoterico.
Intanto, dopo i primi mesi di vita, si rinnovava intorno a Soffici e Papini l’entusiastica adesione di valenti intellettuali.
Il nome della rivista venne suggerito dal titolo del poema dottrinale «L’acerba» di Cecco d’Ascoli, e ben si conservò lo spirito dissacratore ed eretico di tanto predecessore, nei contenuti della nuova polemica.
Aldo Palazzeschi, nel 1914, volle introdurre un filone di derivazione futurista, ma questo fu ben presto soppiantato da motivi di ispirazione dichiaratamente politica. Era il momento dell’interventismo, che divenne d’allora l’elemento sempre presente nella pubblicazione fino alla vigilia della guerra, il 22 maggio 1915, giorno in cui l’edizione di «Lacerba» fu interrotta.
Il futurismo, dunque, si affacciò anche sulla soglia della nuova rassegna, riscoprendovi un ambiente congeniale: dalla consueta e chiassosa euforia giovanile, ai contenuti della poesia «decadente» francese. Soffici, come si è già detto, era vissuto a Parigi e lì aveva raffinato le sue doti artistiche; lo stesso avvenne per Papini, il quale vi trascorse buona parte della sua prima giovinezza.
Gioacchino Volpe, critico e storico, colse il senso dell’intrecciarsi di tante ispirazioni e di tanti impulsi creativi, nelle mode e negli atteggiamenti del momento. Sottolineò, ad esempio, il «compiacimento» dei rappresentanti futuristi nel potersi esprimere in lingua francese, nel potersi considerare «cittadini intellettuali dei due paesi». Ritrovò nella costante parigina il punto di sutura e di autentica comunione per tutto quel mondo di disordinate escandescenze. «[…] Insomma, la cultura libera, la cultura che si atteggia a antagonista della cultura universitaria e cercava finezza, grazia, equilibrio, limpidità, era orientata verso la Francia e da questo orientamento traeva motivo di esaltazione di un vero e presunto spirito latino […]» (L‘Italia in cammino, Milano 1932, pag. 135).
Dovunque la sensibilità delle platee era contesa tra due amori: la rappresentazione raffinata, di buon gusto, colma di reminiscenze transalpine, da una parte, e la rappresentazione chiassosa, orgiastica e paradossale, esuberante di contrasti e di dispute furiose, dall’altra.
Anche «Lacerba» si pose al centro di questa atmosfera di imprevedibili tensioni. Così, l’avversione per tutto il romanticume e il crepuscolarismo decadente finiva con il tradursi in una serie continua di stroncature, in progetti e filosofie di rinnovamento esistenziale, in iniziative coraggiose, che provocarono, tutt’intorno, lo sbigottimento e la riprovazione. Lungo il cammino si persero molti sostenitori, atterriti dalla catastroficità di certi effetti, e rimasero soltanto i giovanissimi, esaltati dallo stato di continua ebrezza di quelle nuove esperienze.
Con «Lacerba» si sviluppò il più vivo fermento artistico che mai avesse animato Firenze, la Toscana e tutta la Penisola. Ma non ci si limitò a indicare una strada, si andò a fondo nell’opera di rivolgimento, fino a provocare dure reazioni. Si sconvolse e rivoltò l’ humus culturale, gettando semi che, di lì a non molto, avrebbero dato frutti eccellenti. Tutta la futura classe intellettuale e dirigente passò attraverso le esperienze di vita contenute in questo contesto di critica e di rivolta. Una rivolta, che giunse fino al limite della sopportazione, che molti guardarono con stupore e con dispetto. Una rivolta, che non fu soltanto reazione sentimentale, o politica, ma anche battaglia di spiriti arditi e ribelli all’idea di pesanti tutele e ipoteche culturali. Dal crocianesimo si passò all’anticrocianesimo, in un’ondata di sconvolgimenti che vide sempre i giovani come protagonisti.
Erano ormai gettate le premesse di un processo che sembrava inarrestabile. Tutte le espressioni dell’arte si erano profondamente rinnovate nella continua ricerca di tecniche e contenuti più aderenti alle mutate esigenze. Si scoprirono nuovi canali ispiratori e nuovi spunti esistenziali. L’«istinto» fu rivalutato, quale forza cosmica elementare. In contrasto con la «ragione» illuministica e il «sentimento» romantico, assurgevano a nuova importanza i valori delle forze naturali e dell’intuito…
In definitiva, poi, la realizzazione fu di gran lunga inferiore agli intenti, e il risultato di tutto quel grande fermento non fece altro che denunciare una incredibile superficialità negli stessi suoi artefici. Alla base delle varie correnti e movimenti si ritrovò, così, nella maggior parte dei casi, semplice volontà istrionica e, talvolta, soltanto spirito opportunistico.
Papini, ad esempio, uscì piuttosto presto dal fulcro della contestazione, per rimanerne vittima esso stesso, subendo la medesima sorte di Croce. Fu travolto, quindi, da una crisi spirituale che lo costrinse a approdare, da ultimo, sulle sponde del cristianesimo. «[…] Ciò mentre era stato il Papini del primo periodo a far conoscere a noi giovani, fra l’altro, figure di mistici, quali Meister Eckhart, e scritti sapienziali che avrebbero avviato verso ben diversi orizzonti, nel caso di un vero superamento in senso tradizionale dell’individualismo intellettualistico e anarchico» (Il cammino del cinabro, pag. 17).
Il giovane che, nato alla fine dell’800, maturava in quella epoca di violenti squilibri, nel clima euforico della rivoluzione giovanile e tragico della guerra, trovò ben presto dinanzi a sé l’impegno di una scelta dura. Dietro la figura del Papini «paradossale, polemico, individualista, iconoclasta, rivoluzionario […]», che incarnò, forse, lo spirito tipico di quel momento, una folta schiera di menti fervide e attente lavorava per dare nuova consistenza alla realtà politica e culturale.
L’esperienza dadaista
Bergson ha fornito un criterio interpretativo del travaglio spirituale che si sviluppò a cavallo dei due secoli, il 19mo e il 20mo. La sua visione rappresentò il tentativo francese di dare veste e contenuto filosofici alla realtà esistenziale di quel tempo.
Egli aveva fondato il suo metodo sull’intuizione.
Il mondo si manifestava in tutta la sua drammatica instabilità. Era concepito come eterno divenire. Su di esso lo spirito umano ambiva primeggiare, quale sua espressione più elevata. Ma, per questo, era necessario configurare un nuovo mezzo di cognizione del reale, che conciliasse le due entità «apparentemente» antitetiche.
Bergson concepì il moto di una corrente, o meglio, di una forza di natura vitale e cosciente, producentesi in una continua «ascensione», e tale da agganciare e coinvolgere ogni aspetto della realtà. Gli ostacoli che a questa sorta di «anelito» si opponevano, causando cadute e passività, producevano la materia e la dispersione. L’istinto, l’organizzazione e l’intelligenza, in costante lotta contro il caos, costituivano invece il contenuto della sublimazione, premessa unica e ineliminabile di ogni acquisizione spirituale.
L’impeto di questa comprensione travolse e accomunò molti giovani intelletti impegnati nel campo della indagine speculativa.
Nel campo artistico, invece, l’esempio forse più caratteristico dell’epoca ci è fornito dal dadaismo di Tristan Tzara. In esso sono presenti tutti i requisiti tipici del movimento culturale: assoluta originalità di temi e spontaneità dell’espressione. Si sa, per altro, che il dadaismo non si fondò propriamente su uno stile, ma su atteggiamenti irrazionali, testimonianze immediate dell’estro creativo, tipiche affermazioni di un Io trascendentale .
Tristan Tzara volle porsi alla ricerca di una purezza perduta, e cominciò con il chiamare «dadaismo» il suo movimento, soltanto perché «da-da» sono le prime parole del bambino che inizia ad esprimersi. Tuttavia sarebbe sbagliato credere che questa esigenza di purificazione e di liberazione interiore possa semplicisticamente collegarsi a un effetto di imbarbarimento, o a facili – quanto ipotetiche – forme di un «ritorno alle origini»… Nessun infantilismo, dunque, né nostalgie o vuote reminiscenze. Piuttosto, nelle manifestazioni di quell’arte, immediatamente si scoprì l’impulso dell’uomo, che si opponeva alla freddezza dell’intelletto, ma che non voleva rimanere invischiato nelle maglie del sentimentalismo. Da-da era l’atto di fede, capace di projettare su un piano di «superiorità interiore», in un’altra dimensione, ove rapporti e situazioni si illuminavano di una luce diversa.
Tristan Tzara trovò il suo contesto ideale nel mondo delle stravaganze papiniane… Il maggior numero dei giovani votati all’arte raccolse il messaggio lanciato dal dadaismo mentre stava ancora vivendo le folgoranti esperienze letterarie promosse da Papini.
Il momento della guerra caricò di nuovo potenziale la materia umana e sviluppò nuova energia di spaventosa tensione.
Il traguardo dei venti anni vide Evola impegnato nel campo della poesia e della pittura. Con lui, tutta una generazione di giovani genti, insoddisfatti e contestatori, ancora lontani dai rigori di una teorica esistenziale.
Evola scrisse poesie.
Fu il primo modo di esternare certi suoi stati d’animo: contrasti interni che esasperavano l’immagine e il linguaggio.
Evola dipinse. E i suoi quadri, ancora oggi, ci appajono come altrettante aperture su un’anima tormentata, confusa, impegnata nel difficile compito di darsi una struttura, una saldezza interiore. Temi profondi e drammatici, che si abbinavano con estrema naturalezza ad originalissimi e spregiudicati atteggiamenti mondani.
Nel maggio del 1916 uscì a Zurigo «Cabaret voltaire», ove, per la prima volta, si leggeva la parola «da da». I giovani accorsero numerosi alla nuova chiamata.
Evola conobbe «391», la rivista per la cui pubblicazione Francis Picabia aveva utilizzato tipografi di diversi paesi; lesse «Litterature», diretto da L. Aragon, A. Breton e Ph. Soupault. Poi apparve «Proverbe», dove Paul Eluard propagava le immagini della sua personalissima lirica.
L’atmosfera era di una esuberanza eccezionale. Manifesti e volantini di tutti i colori e di tutte le tipografie, aggressivi, sconcertanti, miranti al non-senso e all’insulto, si accompagnarono a pubblicazioni impegnate, opere di scrittori il cui talento non ammetteva nessuna regola e il cui spirito non ammetteva nessun freno.
Tristan Tzara costituiva la punta più avanzata in questa azione di sfondamento. Egli era sensibile agli avvenimenti, ma la sua rivolta spirituale conservava comunque autonomia di azione, e rimaneva sempre una provocazione enorme, una provocazione ad ogni costo e con tutti i mezzi, una ossessione, una sfida perpetua.
In una «Nota per gli amici», apparsa sul numero tre di «Bleu», pubblicato a Mantova nel 1921, alla vigilia del suo ritiro, così parlava della esperienza dadaista: «[…] Per noi l’arte è un’altra cosa ; non si tratta di fare il gioco dell’umanità che i diversi mezzi espressivi travestono in illusione di nuovo e di individuale; non si tratta di fare gli istrioni o gli eroi; non si tratta di abbandono o di ebrezza colpevole, motivi esterni di ogni individuazione del sentimento e del pensiero. Siamo fuori […]». Da-da era il demolitore dei luoghi comuni, il distruttore delle intangibili reputazioni. Oltre la sua euforia era impossibile ogni benessere dello spirito. Tutto era ammesso pur di arrivare ai suoi fini: il riso e il pianto, la confusione e l’insulto, la pubblicità, l’affermazione sconcertante e la negazione ossessiva.
«I popoli non amano che si butti all’aria il loro linguaggio e le classi le loro abitudini. Tutti sono in comunione nel rispetto dell’eroismo e delle lacrime». Ma con il dadaismo le istituzioni venivano scardinate, i sentimenti dissacrati, le verità sconvolte… «Il suo coraggio proclamava l’apologia della verità. Passava dalla parte del torto, avendo ragione. Borghesi e intellettuali venivano gettati nello stesso sacco: da da sbarrava il passo alla reazione come all’avanguardia». Prendeva le sue distanze sul metro dell’ironia e del sarcasmo, e nel più completo sconvolgimento dominava incontrastato.
«Esteriormente, queste posizioni non erano prive di una certa analogia col metodo dell’assurdo usato da alcune scuole esoteriche estremo-orientali – il Ch’an e lo Zen – per far saltare tutte le sovrastrutture del mentale: anche se, naturalmente, in esse lo sfondo è del tutto diverso. Si sarebbe potuto anche riandare alle parole di Rimbaud sul metodo della veggenza ottenuto con lo sregolamento ragionato di tutti i sensi» (Ibidem, pag. 24)[3].
Diceva Tristan Tzara in una recente introduzione a «L’avventura da da» di G. Hugnet: «Da da ha tentato non tanto di distruggere l’arte e la letteratura, quanto l’idea che se ne aveva. Ridurre le loro frontiere rigide, abbassare le altezze immaginarie, rimetterle alle dipendenze dell’uomo, alla sua mercè; umiliare l’arte e la poesia significa assegnare loro un posto subordinato al supremo movimento che non si misura se non in termini di vita […]». La galleria «Da da» esponeva quadri di carta e di tappezzeria; alle impostazioni ufficiali, Arp rispondeva con la sua antipittura. Si teneva la prima retrospettiva di Paul Klee, mentre esponevano in permanenza Kandinsky, De Chirico, Savinio, Kokoschka, Max Ernst, Richter, Prampolini… Nel corso di un intero anno – il 1917 – la rivista «Da da» pubblicò due soli numeri, in luglio e in dicembre. I testi, sempre in più lingue, facevano largo posto al futurismo e all’arte astratta, al simultaneismo e al linguaggio inventato… «Di rigore il dadaismo non poteva condurre a nessun’arte in senso proprio. Segnava piuttosto l’autodissolversi dell’arte in un superiore stato di libertà […]. La conclusione più coerente sarebbe stata il rigetto di ogni espressione artistica, il passaggio ad una vita vissuta allo sbaraglio, come fece Rimbaud quando mise da parte la sua stessa poesia percorsa da illuminazioni dopo aver scoperto che “Io è un altro”; oppure un gioco continuo, con una profonda serietà nella leggerezza e una leggerezza nella più profonda serietà. Ma come soluzione intermedia prese piuttosto vita, in tale clima anarchico, l’arte astratta. A quel tempo la sua formula era uso dei puri mezzi espressivi staccati da ogni necessità e da ogni contenutismo, per evocare o attestare uno stato di libertà assoluta» (Ibidem, pag. 24).
Tutta l’attività «da da» fu votata a una sorta di anarchia intellettuale. Da-da era maestro nell’individuare le sue vittime, nella scelta dell’arma, nello sferrare il colpo. Sconvolgeva l’ordine e la tranquillità, i luoghi comuni, la pace borghese… Tuttavia non uscì mai dal dominio della poesia e delle arti plastiche. S’applicò a disarticolare il linguaggio e il pensiero con tutti i mezzi di cui disponeva: immagini stravolte, bizzarre analogie, affidamenti alla sorte, parole inventate; la sua avventura fu una vera rivolta dello spirito, ma fu una rivolta «morale e poetica». In ogni caso, la sua protesta non si inserì mai nel quadro di un programma politico. Anzi, da questo fine sempre volle rifuggire, sempre si tenne lontano, per mantenere intatta la sua libertà. Libertà di esprimersi nel linguaggio più opportuno e libertà di agire nelle forme più adeguate. Di conseguenza, non aderì a nessun indirizzo ideologico, né favorì alcun potere o regime: «[…] sapeva che ogni governo ha il diritto di chiedere dei conti e il cittadino mai».
Nel vivere gli eventi che portarono alla deflagrazione del primo conflitto mondiale, si astenne dal prendere una qualsiasi posizione, pur mantenendosi sempre e decisamente contro la guerra. D’altra parte, i dadaisti non furono, né vollero mai essere, intenditori di problemi del genere. Così, quando uscì «Da da III», non vi si lesse nemmeno un accenno sulla fine dell’impero austro-ungarico; come, un anno prima, non era stata detta una parola sulle conseguenze della rivoluzione in Russia…
Con il terzo numero, Tzara assunse in prima persona la responsabilità della rivista, riproponendo i temi ormai consueti della libera invenzione e della spontaneità. Il «Manifeste da da 18» sottolineò con rinnovata veemenza la volontà del movimento: qualsiasi obbedienza a una estetica era messa al bando. Da-da divertiva ancora con il suo vocabolario inatteso, con il suo imprevedibile atteggiarsi, con i suoi metodi stravaganti. Occorreva fare «tabula rasa» di molti pregiudizi, e mai azione fu portata avanti con maggiore impegno. La morale, il benessere, la società, la religione… tutto era pregiudizio e classificazione, da distruggere, senza timore di restare soli ed incompresi: «[…] ogni uomo grida: c’è un grande lavoro distruttivo da compiere. Spazzare, pulire…».
Il nichilismo di Da-da insegnava a non avere domani. E non bisogna confondere questa precisa volontà di «non partecipazione» con un generico assenteismo. Da-da fu sempre oltremodo sensibile a ogni innovazione nel campo dell’arte e del pensiero. Proprio dalla Russia, Ivan Turgheniev, filosofo dell’individualismo assoluto, aveva parlato per primo di «nichilismo», e i canali da-da si incaricarono di fare eco alle sue affermazioni.
Era questo l’ambiente in cui Evola sviluppò, prima e dopo la guerra, le sue tesi artistiche. In «Arte astratta», uscito nel 1920, egli così parlava del dadaismo: «[…] l’arte ha finalmente e per la prima volta, trovata la sua soluzione spirituale: ritmi illogici e arbitrari di linee, colori, suoni e segni che sono unicamente segno della libertà interiore e del profondo egoismo raggiunto; che non sono mezzi che a se stessi; che non vogliono esprimere nulla, completamente. Qua e là è superata la stessa necessità di espressione. L’arbitrio e il capriccio sono realizzati […]. Si chiama spirituale uno, quando giunge a comprendere l’umanità di Dante, di Michelangelo, di Wagner. Oh, se ne avete pane da mangiare prima di arrivare dove noi siamo… L’arte astratta non potrà essere storicamente eterna e universale: questo a priori – Plotino, Eckhart, Maeterlinck, Novalis, Ruysbroeck, Swedenborg, Tzara, Rimbaud… tutto ciò non è che un breve, raro, incerto balenare, attraverso la grande morte, la grande realtà notturna della corruzione e della malattia. Parimenti, la rarità delle gemme indicibili fra le enormi ganghe fangose. Arte di eccezione, arte fuor del tempo…».
La presenza di tanti esponenti, delle più diverse nazionalità alimentava costantemente le istanze universaleggianti propugnate dal movimento. E, in effetti, in esso si confondevano uomini delle più varie estrazioni e inclinazioni, in nome di quell’internazionalismo che, nonostante fosse il risultato di una esigenza «sentimentale» e irrazionale, non poteva fare a meno di cogliere il segno nei sogni di tanti giovani. Così fu anche per Evola, reduce dal fronte. Nei temi dadaisti, egli trovò soddisfazione al suo anelito critico-distruttivo dei vecchi, stanchi valori di un mondo ormai dissoluto.
Ma il dadaismo, cui doveva tenere dietro il surrealismo, non riuscì a mantenersi coerente con certe premesse di azione e non arrivò ad autoconsumarsi nella esperienza di «una effettiva rottura di livello, di là da ogni arte e da ogni consimile espressione», bensì ristagnò su vecchi contenuti, cristallizzandosi su posizioni di «ribellismo» fine a se stesso.
Alcuni intelletti più esigenti, tuttavia, varcarono la soglia di una realizzazione limitatamente artistica, e, dietro la spinta delle esperienze trascorse, si ritrovarono in un mondo di inconsuete projezioni.
Evola fu tra questi.
[1] Tra le molte biografie comparse in quel tempo, una parola definitiva su Arthur Rimbaud fu detta da Ardengo Soffici, in un libello assai preciso del 1910, stampato a Firenze il 31 luglio 1911, per i «Quaderni della Voce» raccolti da Prezzolini ( NdC ).
[2] In una edizione del nostro tempo, sono raccolte alcune delle composizioni di Evola risalenti agli anni tra il 1916 e il 1922. Si tratta di un volumetto intitolato «Raâga Blanda», uscito per la stampa di Vanni Scheiwiller, in Milano, nel 1969. Vi sono contenute circa trenta poesie, in lingua italiana e francese, alcune già pubblicate in un suo primissimo lavoro, «Arte Astratta», altre inedite ( NdC ).
[3] «Quando batti le mani produci un suono, ascolta il suono di una soltanto […]. Se hai udito il suono di una mano, sei in grado di farmelo sentire?» (Ed. Ubaldine – Introduzione al Buddhismo Zen).