“Cavalcare la tigre”, titolo di un suo libro del 1961, è la frase che meglio descrive il rapporto che Julius Evola ha avuto con la modernità. Un titolo audace, che contempla sia la contrapposizione che la condivisione con il mondo moderno, e quindi proprio quella che è stata l’esperienza di questo controverso intellettuale italiano: nato a Roma nel 1898 da una nobile famiglia siciliana, Evola coltiva la filosofia, soprattutto la lettura di Nietzsche e Weininger, e combatte come ufficiale di artiglieria nella Prima guerra mondiale. Ma, negli anni giovanili, è soprattutto un artista che condivide le avventure non solo dell’avanguardia italiana, come Boccioni, Marinetti e Balla, ma anche del movimento Dada di origine francese. Dipinge, espone, elabora testi teorici sull’arte contemporanea partecipandone dal di dentro anche come poeta. Ma la filosofia, intesa come riflessione sul tempo che gli è toccato vivere, è sempre al centro dei suoi interessi e delle sue vastissime curiosità: nella sua ricerca di nuove vie di elevazione individuale – “oggi la religione positiva è venuta meno alla sua funzione più alta, se è apparsa offrire ben poco a coloro che, più di una fede e di addormentamento moralistico borghese e sociale dell’animale umano, cercavano, sia pure oscuramente, una esperienza spirituale liberatrice” – si imbatte nelle dottrine di realizzazione estremo-orientali, studia il Tao-te-ching e i testi Tantra, sui quali scrive – primo italiano – un’opera importante (“L’uomo come potenza”, che poi diventerà “Lo yoga della potenza”). La sua insaziabile ricerca di vie di evoluzione interiore lo porta anche ad occuparsi di magia, ad avvicinare personaggi appartenenti a sfere teosofiche e antroposofiche, allora molto di moda, ma anche ad avvicinarsi al fascismo e poi al nazismo. Nella molteplicità delle esperienze, emerge la sua visione del mondo: antimoderna, antimaterialista, antiprogressista. La sua opera più importante e famosa è infatti “Rivolta contro il mondo moderno” (1934), molto apprezzata da Gottfried Benn, che ne curò la traduzione in tedesco. Alterna operazioni culturali interessanti, facendo conoscere in Italia Spengler, Guénon e Bachofen, a – per noi inquietanti – studi sulle razze, tema a cui dedica tre libri molto apprezzati da Mussolini. Proprio per questo suo teorizzare il razzismo, e per le sue frequentazioni naziste, Evola è stato a lungo – dopo il 1946 e fino alla morte nel 1974 – considerato un autore maledetto. Oggi la sua opera pittorica è stata rivalutata, tanto che lo si può ammirare alla Galleria di Arte moderna di Roma, e una recente ristampa di una delle sue opere più significative, “Maschera e Volto dello spiritualismo contemporaneo” (con un saggio introduttivo di H.T.Hakl, Mediterranee, 2008) insieme con l’uscita di un’antologia di interviste su di lui raccolte da Marco Iacona, ripropongono il suo pensiero come quello di un grande critico della modernità del Novecento, forse il più importante critico “radicale” della modernità della cultura italiana. Evola è moderno nel suo cercare una via spirituale che lo riscatti dal materialismo progressista del suo tempo al di fuori delle religioni tradizionali dell’occidente, anzi, per gran parte della sua vita, in forte polemica con queste. La sua ricerca è affine a quella dei teosofi, degli spiritisti e dei seguaci di nuove religioni luciferine, di coloro soprattutto che, anche grazie alla maggiore accessibilità dei paesi orientali, cercano la verità alle radici delle grandi tradizioni indoeuropee, ma si distingue da costoro per rigore, per spessore della ricerca, per il rifiuto di accontentarsi di verità a buon mercato. Un rigore che è all’origine del saggio ristampato, “Maschera e volto”, nel quale Evola esordisce riconoscendo l’insoddisfazione spirituale dell’uomo moderno, al quale non possono bastare materialismo e razionalismo, ma che non può più credere alle religioni rivelate per poi passare ad esaminare, in modo lucido e critico, le “nuove spiritualità” che tentano di riempire questo vuoto. In queste nuove vie, individuate nello spiritismo e nell’esoterismo – “si è pronti a reintrodurre (lo spiritualismo) dappertutto, eccetto che nell’ordine divino, ove esso risiede realmente” – egli coglie il materialismo appena mascherato, la persistenza in una cieca fede nel progresso, e quindi l’impossibilità di trovarvi un sostegno reale, che vada al di là di una generica solidarietà emotiva di gruppo. Mentre invece, scrive “ogni misura positiva per la vera spiritualità, per l’uomo deve essere la coscienza chiara, attiva e distinta”. Proprio per il basso livello della ricerca spirituale del suo tempo, Evola era convinto di vivere nel Kali-yuga, cioè nella fase più bassa e oscura delle ere del mondo. Il saggio è uscito in prima edizione nel 1932: basta fare una breve ricognizione mentale a quello che è oggi lo stato della ricerca “spirituale” al di fuori delle grandi religioni, come la New Age – una forma decaduta della teosofia – e il dilagare di stati di ebbrezza provocati da droghe e/o da musiche che portano l’individuo al di fuori di se stesso, per rendersi conto che la situazione è ancora peggiorata. Egli mette in guardia soprattutto da quello che considera il più grave pericolo incombente, quello di un indiscriminato accesso a influenze negative e pericolose: “Tali persone credono che qualunque cosa trascendente il mondo a cui sono abituate costituisca per ciò stesso alcunché di superiore, uno stato più alto. Nel punto in cui in loro agisce il bisogno di ‘altro’, l’impulso all’evasione, esse imboccano ogni via, e non si accorgono quanto spesso esse così entrino nell’orbita di forze che non sono al disopra, ma al disotto dell’uomo come personalità”. Questo chiaro richiamo ai pericoli di una ripresa pericolosa del satanismo – fenomeno che oggi si realizza sotto i nostri occhi attoniti – costituisce forse l’ammonimento più interessante e importante del suo discorso. Egli associa infatti l’uso delle droghe e di certi tipi di musica, finalizzati ad ottenere forme di “invasamento collettivo”, alla possibilità “di possibili involontarie evocazioni di forze “infere” che possono portare ad assurde azioni criminali”. E pensa anche ad una possibile ripresa del “satanismo” inteso come “potere competente per le cose di questo mondo”, associato ad un banale paganesimo. Questo stesso pericolo di liberazione di forze istintive che dovrebbero essere tenute invece sotto controllo, Evola lo vede nella pratica psicanalitica. L’esistenza di zone di subconscio che abitualmente cadono al di fuori della coscienza, infatti, era ben nota alle antiche dottrine tradizionali, che non avevano però la tendenza a concepirle come un’entità distinta “tanto da creare un vero e proprio dualismo dell’essere umano”. Secondo le teorie tradizionali, infatti, le due parti vanno rinsaldate per ridestare lo stato originario di un tipo umano superiore, mentre, al contrario, le scuole psicanalitiche moderne, scrive, “vanno invece solo ad esasperare la frattura e ad invertire i rapporti gerarchici fra i due principi”. Cioè, in sostanza, “la posizione del freudismo è il disconoscimento, nell’uomo, della presenza e del potere di qualsiasi centro spirituale sovrano, insomma dell’Io in quanto tale. Di fronte all’inconscio, l’Io viene desautorato.” La psicanalisi, quindi, viene considerata da Evola un segno dei tempi, in quanto può essere vista come la controparte del mito darwiniano: “Manifesta infatti la stessa tendenza, la stessa gioia inconscia di poter ridurre il superiore all’inferiore, l’umano all’animale e al primitivo-selvaggio, che si palesa nella cosidetta teoria dell’“evoluzione”. Si vede chiaramente, quindi, come Evola individui il pericolo insito nella moderna ricerca di spiritualità in un gioco incosciente con il sovrannaturale: “L’evocazione del sovrannaturale è temibile. Essa opera distruttivamente. E l’oggetto preferito della sua distruzione è l’Io.” Davanti alla pericolosità di questi nemici vediamo che il filosofo, certo anche per effetto dell’influenza di Guénon, recupera interesse per il cattolicesimo che fino a quel momento, così come il cristianesimo in generale, aveva disprezzato. Nonostante continui a considerare sbagliato il rifiuto di ogni posizione gnostica da parte della chiesa, egli rivendica il valore del cristianesimo in quanto erede – come le altre grandi religioni – della grande Tradizione. E questo aspetto è fondamentale dal momento che, per Evola, “esiste una sola via per la difesa della personalità e questa è la ripresa della visione tradizionale del mondo e della vita, unita ad una interna ‘rivolta contro il mondo moderno’”. Secondo lui, quindi “il cattolicesimo rappresenta una difesa dell’uomo occidentale”, e in particolare soprattutto quello che chiama il “tradizionalismo integrale”, che ne mette in luce “l’arcaicità e la perennità”. Anche se quindi “è problematico che malgrado tutto la chiesa, “corpo mistico del Cristo”, sia la portatrice e l’amministratrice di una vera potenza sovrannaturale oggettivamente agente attraverso riti e sacramenti” egli riconosce, però, “che il cattolicesimo contiene, malgrado tutto, tracce di una sapienza” che può far evolvere spiritualmente l’uomo. Sono interessanti spunti di riflessione, che suggeriscono la lettura di questo saggio, nonostante le fastidiose allusioni razziste, contro ebrei e “negri”, che lo costellano. E che Evola abbia qualcosa di interessante da dire anche oggi, lo pensano anche i 40 intellettuali intervistati da Iacona, che si interessano a Evola sia nel suo complesso di figura intellettuale, che per alcuni aspetti del suo pensiero o della sua produzione artistica. Come Marcello Veneziani, che ricorda come nel ’68 ci fu un tentativo di impadronirsi del suo pensiero anti-borghese, una fascinazione per il suo nichilismo attivo, per la sua filosofia dell’Individuo Assoluto. C’è chi, proprio per la critica alla modernità, lo accosta a Pasolini, come Nicola Toraldo Serra; chi, oltre che a Nietzsche, lo avvicina a Colli, nel suo intendere la filosofia come uno strumento riconnettivo e propedeutico alla sapienza (Giovanni Sessa); chi, come Claudio Bonvecchio, sottolinea il suo paganesimo anti-cristiano, la sua convinzione che il cristianesimo vada distrutto perché ha cancellato gerarchia e aristocrazia per sostituirvi la schiavitù dei sentimenti, il timore verso la trascendenza. Proprio su questo tema, invece, Adolfo Moranti ricostruisce l’evoluzione del pensiero evoliano, rievocando il suo interesse per il cristianesimo medievale, gerarchico e virile. Una tensione alla ricerca di un’élite che per lui significava sempre una gerarchia etica, ma rigorosamente maschile: per Evola, gli uomini non possono appartenere a questa élite se non separandosi dal femminile. Si comprende bene, quindi, come, fra i 40 intellettuali scelti per parlare di lui, ci sia una sola donna, Annalisa Terranova. Per Alain de Benoist, all’individualismo egualitario Evola contrappone una versione aristocratica dell’individualismo, l’idea di un uomo portatore di sovranità assoluta, di libertà assoluta, di potere assoluto. Stefano Zecchi ha scritto che “Cavalcare la tigre” può essere considerato un manuale di sopravvivenza per l’uomo contemporaneo, e apprezza il fatto che sia stato concepito quando la modernità era più trionfante, nel momento in cui esprimersi contro di essa era più o meno che un’eresia. Marino Freschi sottolinea l’affinità con Jünger nella capacità di resistenza al moderno, nella consapevolezza che “tutto ciò poteva avvenire non con la nostalgia verso il passato, ma con un oltrepassamento del presente”. Tutti quanti, in fondo, concordi nel dire che la critica alla modernità che nasce da destra – come quella di Evola – oggi ha più cose da dirci sulla società in cui viviamo di quella che viene dalla sinistra.
(Il Foglio, 7 febbraio 2009)