«“Tellegra il mago!”.
Il giorno della presentazione s’era inchinato, con uno strano tremore visibile in tutto il volto; poi, sedutosi accanto, m’aveva rivolto alcune domande, con la voce un po’ strascicata, un po’ assente. La sua mano destra, sul ginocchio accanto al mio, lunga, sottile, con un filo d’oro al polso e le unghie lucidissime, si contraeva quasi impercettibilmente in espressione fra estatica e rapace. Io avevo detto a me stessa: “costui mi vuole”. Avevo aggiunto: “perché no”. […]
In smoking e col monocolo, è venuto a trovarmi iersera, Tellegra. M’aspettava giù in uno dei saloni. Gli americani in carovana dovevano appena esser usciti, perché l’aria era irrespirabile, densa di fumo. Ogni volta che ci rivediamo, inaspettatamente o no, Tellegra, pur così abile a padroneggiarsi, non riesce a far che il suo viso non si contragga un attimo.
Poi, la breve superficie ovale ridiventa smalto.
Negli occhi iersera lasciò trasparire che mi trovava “in forma”: posava lo sguardo, senza parere, or sulla fronte, or sulle braccia, nude, or sulla persona assottigliata. Io sorridevo, disinvolta, e dal mio canto lo sogguardavo. Era anche lui abbastanza à son avantage. Bisogna riconoscere che il mostro moderno ch’egli è porta perfettamente la maschera del mondano. Mostro della specie dei serpenti. Ma il suo veleno non è letale».
Così Sibilla Aleramo, in Amo dunque sono, descrive il misterioso e originale pittore futur-dadaista Julius Evola, paragonandolo ad un «gelido architetto di teorie funambolesche, vanitoso, vizioso, perverso» e rappresentandolo sotto le spoglie del dandy Bruno Tellegra nel romanzo autobiografico Amo dunque sono (Mondadori, Milano 1927, pp.127-128; p.148 e pp. 229-230).
All’epoca della complicata relazione amorosa con la Aleramo, Evola (allievo di Giacomo Balla e amico di Volt – al secolo il conte Vincenzo Fani Ciotti –, l’autore del Manifesto della moda femminile futurista), si presentava trattando il pubblico in maniera altezzosa, con distacco aristocratico, disumano e gelido.
Sempre elegantissimo, per provocare i frequentatori dei salotti à la page, Evola adornava il suo sfarzoso smoking o l’abito scuro, formale, tagliato su misura e sempre elegante, sfoggiando come accessori un monocolo e lunghe unghie laccate di verde, come testimoniato dalla prima attrice del Teatro Sperimentale degli Indipendenti di Anton Giulio Bragaglia, la futurista Fulvia Giuliani. Tale fusione dell’arte con la vita avvicina idealmente Evola a quella rivoluzione estetica e comportamentale, voluta da Balla col rinnovamento dell’abito e, soprattutto, in sintonia con i futuristi russi Il’ja Zdanevic e Michail Larionov che si dipingevano il volto considerandolo alla stessa stregua di «un paesaggio che divora un altro paesaggio, come le vetrine viste dall’automobile, che sfrecciando si compenetrano», come scrissero nel manifesto del 1913, Počemu my raskrašivaemsja [Perché ci dipingiamo le facce]. In effetti paradossalmente Evola faceva sua la volontà espressa da Filippo Tommaso Marinetti nel manifesto Il teatro di varietà (1913), dove si esprimeva la necessità di «costringere le cantanti a tingersi il décollété, le braccia e soprattutto i capelli, di tutti i colori per la seduzione. Capelli verdi, braccia viola, décollété azzurri, chignon arancioni ecc.».
Infastidito dal lato chiassoso ed esibizionistico delle manifestazioni dei rappresentanti dell’avanguardia futurista, ma ancora di più dalle ragioni dell’interventismo più esasperato (Filippo Tommaso Marinetti gli disse: «Le tue idee sono lontane dalle mie più di quelle di un esquimese» facendo tra l’altro riferimento alla visione ideologica evoliana, idealmente schieratosi durante la Grande guerra al fianco degli Imperi centrali), Evola si allontanò ben presto dal Futurismo e aderì con entusiasmo al movimento Dada, diventando il principale animatore delle manifestazioni dadaiste in Italia nonché il principale rappresentate del Dadaismo italiano. Facendosi portavoce dello spirito dadaista, Evola sostenne che «Talvolta è possibile essere eleganti ed aristocratici anche senza frequentare Dada»; che le «persone intelligenti» sono coloro «che hanno un’origine nobile e si preoccupano maggiormente di eleganza e di vita mondana» e che «darsi lo smalto alle unghie» fosse «cosa più seria e morale che non far dell’arte». Tuttavia in Arte astratta/ posizione teorica/10 poemi/4 composizioni (Collection Dada, Maglione e Strini, Roma s.d. [ma 1920]), suo massimo testo teorico dedicato alla dimensione artistica, Evola scrisse in maniera tranchant, di sentire «l’arte come un’elaborazione disinteressata, posta da una coscienza superiore dell’individuo, trascendente ed estranea perciò alle cristallizzazioni passionali o di esperienza volgare», quindi assai lontana dagli atteggiamenti scandalosi dei futuristi.
La fotografia riproduce il barone Julius Evola probabilmente in occasione dell’esposizione dadaista tenutasi a Roma, alla Casa d’Arte Bragaglia, tra il 15 e il 30 aprile del 1921: alle spalle due opere dadaiste (immagine tratta da Lettere di Julius Evola a Tristan Tzara (199-1923) a cura di Elisabetta Valento con sei illustrazioni, traduzione di Aldo La Fata, introduzione di Gianfranco De Turris, Quaderni di testi evoliani, n.25, Roma 1991).