De Pisis e la conferenza «Il Dadaismo e il suo contenuto spirituale» di Julius Evola

Julius Evola e Filippo Tibertelli de Pisis furono uniti dall’amicizia e dalla passione per l’Arte e l’esoterismo. Entrambi affascinati dalle sperimentazioni in ambito artistico, svilupparono un originalissimo percorso che andò oltre la frequentazione delle avanguardie del tempo e si affermò in una ricerca interiore culminata, soprattutto in Evola, con lo sconfinamento nella dimensione iniziatica ed esoterica delle proprie indagini intellettuali e filosofiche.
Al pari di Evola, de Pisis fu attratto dal Futurismo e successivamente dal gesto creativo e dall’impeto provocatorio dei Dadaisti, ma l’approdo a Dada per entrambi non costituì un allontanamento dal programma poetico e politico dei futuristi, quanto piuttosto una fuga dalle regole precostituite, una ricerca di nuovi stimoli e nuovi incontri. Mentre la decisione di lasciare il movimento marinettiano di Evola fu radicale, per de Pisis si trattò di trovare una nuova via che portasse al congiungimento di diverse idee estetiche e, al tempo stesso, al loro superamento. Così nel lasso di pochi anni, de Pisis si lasciò alle spalle la fascinazione per la poetica decadente, orientandosi verso quella simbolista, così come gli scivolarono addosso le idee futuriste e presto anche quelle dadaiste e metafisiche, in nome della costante ricerca di una pittura moderna e pura.


Indubbiamente de Pisis fu artista dadaista, e i suoi dipinti, realizzati nel 1916 con la tecnica dell’acquerello, si distinsero per l’inserimento di piccole strisce di carte colorate sovrapposte alle immagini sullo sfondo. Quelle presenze impreviste si trasformavano in punti focali alternativi disseminati sulla superficie del quadro, facendo sì che la raffigurazione perdesse qualsiasi contatto con la realtà. Questo allontanamento dal reale verso orizzonti a-umani (culminato nella pittura di Evola con l’«astrattismo mistico» degli anni Venti) maturò anche grazie all’ascendente esercitato in de Pisis dallo studio della Teosofia e delle religioni orientali, in particolare il Buddismo. Negli anni durante i quali cedette alla sperimentazione con carte e pennelli, non disdegnò neppure la scrittura e l’impegno letterario: con la sorella Ernesta lavorò a quattro mani alla stesura dell’enigmatico libro Il Verbo di Bodhisattva, con il quale raggiunse l’apice della propria ricerca spiritualista ed esoterica. Pubblicato con il criptico pseudonimo Maurice Barthelou nel 1917, il volumetto, scritto sotto forma di trattato, risultò incomprensibile ai più per la scrittura aforistica dalla prosa moraleggiante, intrisa di echi di filosofie orientali e teosofiche, infarcita di richiami a pose superomistiche di chiaro stampo nietzschiano. In verità, attraverso le parole del Risvegliato-Bodhisattva, de Pisis cercò di trovare «lati di contatto, non solo col pensiero di filosofi e pensatori antichissimi, quali Mosè, Budda, Zarathustra, Platone, Lucrezio, ma altresì con quello di pensatori e filosofi moderni: e citeremo solo Leopardi, Nietzsche, Schopenhauer, Stirner», grazie ad una interpretazione che invitava ad uscire dal «campo ristretto e scolastico delle formule rettoriche e della teoretica», per «spaziare in quello infinito di una ricerca libera e subiettiva, intesa alla spiegazione dei più alti e gravi problemi che travagliarono in ogni tempo, e travagliano, le menti più elette». Così Bodhisattva si rivelava non in quanto profeta o «mandato da dio», ma come una sorta di messaggero e testimone: colui che, avendo acquisito la purezza dello «stato di “libertà”», ha potuto godere della «visione esatta» di sé e del tutto. Allora, al pari di Evola, che inseguiva la definizione filosofica dell’Individuo Assoluto, centro di una nuova prospettiva esistenziale, de Pisis agognava l’Arte come ad una specie di divinizzazione della vita in senso totalizzante.
Nel 1922, presso la Lega Teosofica Indipendente di Roma, Evola tenne una conferenza sul tema Il Dadaismo e il suo contenuto spirituale, invitando i suoi amici artisti d’avanguardia a partecipare – tra questi, l’architetto futurista Virgilio Marchi e, naturalmente, l’amico pittore de Pisis. Quest’ultimo non si limitò ad assistere alla conferenza, ma si trasformò in cronista per la rivista illustrata d’arte e di mondanità «Le Maschere». Al centro dell’esposizione de Pisis mise il ruolo svolto dall’amico oratore sul pubblico, che «ha avuto la sensazione di trovarsi di fronte a un uomo che sa molto bene ciò che si dice e che ha un contenuto spirituale di alto grado», mettendo in luce «il garbo, l’arguzia talora finissima, talora gustosamente salata o ferocemente ironica con cui Evola ha esposto le sue idee». Al di là della stima, in Evola de Pisis riconobbe «se non altro in potenza, intenzioni e ingegno, […] molto superiori alla mediocrità che ci circonda». Nonostante l’impegno profuso da Evola nel disquisire di Dada e dei suoi aspetti simbolici reconditi, secondo de Pisis, questi difettava di «una maggiore semplicità e cautela» nell’esposizione, mentre d’altra parte si esprimeva comunque con «una maggiore potenza creativa», derivata dal fatto di essere «ancora molto giovane». In tutto questo, il Dadaismo evoliano gli apparve fragile, vittima di «storture e incertezze» tipiche però delle avanguardie del tempo: «Non sapremo entusiasmarci davanti ai prodotti lirici della modernissima scuola (di cui Evola volle leggere qualche saggio). Per Dada avviene, mi pare, ciò che avvenne per il futurismo: le applicazioni son più ardue delle teorie». E, a suo dire, anche «certe esposizioni grafiche dei massimi problemi» non avrebbero potuto comunque convincere a fondo la platea della validità del Dadaismo iniziatico proposto dal suo portavoce.


Nonostante ciò, de Pisis riconobbe ad Evola di aver «dato prova (e chi lo conosce è convinto) di possedere una cultura filosofica e una preparazione non comune». Convinto delle sue affermazioni, nel corso degli anni de Pisis sottolineò il carattere straordinario delle ricerche evoliane e, in un appunto datato 22 giugno 1924, di lui scrisse: «Per certi invidiosi e “fregnacciari” (direbbe l’amico Bragaglia), il fatto che io parlavo con rispetto e considerazione di Evola, il dadaista, era tempo fa prova sufficiente della mia stupidità, ma io ben sapeva quanto costoro si ingannassero».