Il verbo latino augeo è a fondamento delle parole: auctoritas, augurium, augustus, augur, auctor, ed il fondamento è di natura tanto etimologica quanto semantica poiché il significato intrinseco dello stesso è: “arricchire, incrementare, rafforzare, caricare (qualcosa o qualcuno) di energia sacrale e legittimante” (sul punto vedi G. Casalino, Res Publica Res Populi, Forlì 2004, pp. 77 ss.).
Tutto ciò acquisito, conosciuto e premesso, dinanzi alla quaestio della natura del rapporto, sotto il profilo fenomenologico, che instaura il Romano, Magistrato e/o Sacerdote con il Divino, con l’Invisibile, è necessario, ai fini della stessa possibilità di avviare il discorso intorno alla conoscenza della Tradizione Romana, porre a base epistemologica del medesimo, l’autorevole pensiero di tre autori ben noti alla cultura tradizionale di natura sapienziale: Julius Evola, secondo il Sapere ermetico-platonico; Arturo Reghini, secondo quello pitagorico-massonico; Guido de Giorgio secondo la dimensione sacrale-dantesca della sua Conoscenza, autorevolmente, anche se con linguaggi differenti, intorno alla problematica sopra evocata, affermano il medesimo concetto: la caratteristica, sorprendentemente unica nel panorama del Mondo Antico, della spiritualità religiosa romana è quella di essere radicalmente differente da tutte quelle dei popoli e delle tradizioni contigue e coeve alla stessa e di essere, pertanto, in guisa evidente ed indiscutibile, qualificata, nella sua essenza asciutta ed inesorabilmente efficace, da un rapporto diretto, attivo ed intensivo, ontologicamente di natura magica, con il Divino, dove non vi sono presenze, realtà o mediazioni di nessuna specie o genere: né mitiche, né simboliche, né misteriche, escludendo, pertanto, qualsiasi esistenza di consorterie, associazioni, sette o confraternite che possano essere comparate o alle forme ed alle realtà della esperienza misterica contemporanea alla Romanità medesima o alle forme moderne di settarismo massonico in tutte le sue fenomenologie, pretenziosamente “esoteriche”.
Ciò vuol dire, per coloro che sono in grado di visualizzare tale Verità, che il rapporto è diretto e, quindi, come acutamente insegna Evola, di natura e derivazione primordiale, cioè riferentesi al “momento” dell’Inizio in cui, secondo tutte le tradizioni dei popoli del pianeta, l’uomo viveva in stretta comunione con gli Dei e, poiché ciò era essenziale, non vi era la necessità di alcuna mediazione di natura strumentale, finalizzata a restaurare, quindi, ciò che è perduto, cosa che è “di poi” avvenuta con il sorgere della necessità e del bisogno del sacrificio, che è il rituale ed istantaneo pasto comune tra l’uomo e gli Dei, quale mezzo per rinnovare, anche se per un “tempo” che è fuori dal tempo (essendo il Tempo Sacro), quanto in illo tempore era continuo, normale e gioiosamente evidente. Se tutto ciò è vero, e non vedo come lo si possa negare o contestare, se non per ignoranza (sempre dal latino ignorare = non sapere…!) o per dolo, nel senso che si persegue scientemente una perversa finalità tesa ad introdurre, lentamente e pervicacemente, nel nostro mondo culturale, come unitaria seppur diversificata visione vivente del mondo, elementi di relativismo sofistico o di rinunciataria quiescenza agnostica; nell’un caso o nell’altro tale infezione dello spirito è, comunque e sempre, prodromica di confusione e di oscuramento animico con effettuale intellettualizzazione astratta ed erudita della stessa dimensione noetica e ciò non può che eventuarsi in guisa inevitabilmente eziologica, attesa la natura eticamente indeterminata e finalisticamente neutra della stessa forma mentale moderna che è la causa di tale patologia della cultura, intesa come forma interna.
Se si pone mente, tra l’altro, i tre Autori indicati, esprimono, non a caso, le tre fondamentali Vie dello Spirito dell’Occidente: la prima, incarnata e vissuta da Evola, quale Ascesi di ascendenza primordiale e di manifestazione ermetico-platonica, la seconda, vissuta dal Reghini, è la spiritualità pitagorico-misterica di orientamento matematizzante, mentre la terza, come è evidente, realizza, nella guisa intensa quale Fuoco sempre acceso e tenuto a temperature medio-alte, il connubio tra la fede venuta dal medio oriente e la Tradizione romana indoeuropea, come conosciuta, non senza dolore, nell’esperienza spirituale di Dante Alighieri. V’è da dire, inoltre, che l’intero Discorso manifestato sia da Evola che da Reghini come da de Giorgio, lo si può ritrovare, espresso con altro linguaggio, che è quello della storia delle religioni o della fenomenologia dell’esperienza religiosa, in altrettanti autorevoli autori quali: George Dumezil, Mircea Eliade, Karoly Kerenyi, Vittorio Macchioro (fondamentale proprio sulla centralità e secchezza del Rito nella Romanità…!), Franz Altheim, John Scheid, Angelo Brelich, Dario Sabbatucci, Enrico Montanari, Carl Koch, Jean Bayet, Agostino Pastorino, Giovanni Pighi, i quali non solo confermano, tutti, quanto sin qui dedotto, ma arricchiscono l’intera prospettazione di solidi supporti probatori aventi ad oggetto elementi di storia e teoria del diritto antico, nonché di natura epigrafica, archeologica, letteraria e cioè, in una parola, documentale, tanto da esplicitare il carattere stesso della ritualità giuridico-religiosa romana, ribadendo, in buona sostanza, quanto Evola stesso ha affermato in quel magnifico e fondamentale passo di Rivolta contro il mondo moderno (pp. 53-54, Ed. Mediterranee, Roma 1969) dove è resa manifesta la fenomenologia attiva e la finalità realizzativo-identificatrice del Rito vedico indoeuropeo, quale archetipo di quello romano, essendo ambedue di origine primordiale; natura del Rito, inoltre, che in Roma, come hanno ben compreso storici e studiosi del Diritto Romano del livello di Pietro de Francisci, Riccardo Orestano, Pierangelo Catalano, Axel Hageström, H. Wagenvoort, si manifesta con i medesimi caratteri, magicamente creativi, presenti nella struttura fenomenica del rito vedico.
Ciò detto, in termini propedeutici, è necessario, a questo punto, pensare in guisa più organica, quale tematica di natura strettamente spirituale, quanto proviene dal discorso testè sviluppato, intorno alla natura del rapporto sussistente tra il Romano e il Divino, atteso che “…il romano con il Rito crea la realtà fenomenica per effetto della sua azione sulla realtà numenica…”, come abbiamo diffusamente trattato nel nostro libro Il nome segreto di Roma; pertanto, proprio sul piano dello Spirito, quanto siamo andati riferendo è oltremodo eloquente attesa la evidente identità o quanto meno analogia che sussiste tra la nuda, secca, attiva essenzialità rituale romana, senza alcuna forma di mediazione con il Divino, in un rapporto amichevole con lo stesso (pax deorum), qualificato da una inequivocabile assenza di qualsivoglia presenza, inquinante e deviante, di stati emotivo-sentimentali o fideistico-irrazionali in colui che opera ed agisce nell’Invisibile e su l’Invisibile, e quanto è dato riscontrare anche nell’arcaica ritualità scintoista come in quella vedica, simili nella natura a quella omerico-ellenica, tutte, quindi, nello Spirito di chiara provenienza e natura Primordiale.
Siamo a conoscenza che l’Inizio, la Primordialità, l’Arché coincide con la Fine, identificandosi con la stessa e quindi con la contrazione, il crepuscolo del Ciclo, essendo ciò la realtà uroborica del Circolo ed evidenziando proprio quanto la primordiale comunione uomo-Dio, nel significato esoterico ciò significando il Sapere dell’uomo di essere il Dio, sia, nella assenza di qualsiasi forma di mediazione, del tutto superflua, atteso che, non essendoci alcuna dualità non v’è nulla da mediare; alquanto simile alla realtà spirituale da fine del Ciclo o da epoche che accellerano tale fine, dove è presente una forte coagulazione dello Spirito in se stesso, poiché fuori il Mondo è Tenebre della stessa natura di quelle interiori, come intuì Nietzsche quando affermò: “…il deserto cresce fuori di noi, fà che il deserto non cresca dentro di te…!”; anche in tale momento del processo (simile al primordiale nonché a quello romano), non vi sono mediazioni poiché non vi è nulla con cui mediare in quanto, proprio come nella primordialità vi è l’Unità che si conosce Uno e vi si identifica, così nel crepuscolo si manifesta il capovolgimento oscuro della Unità primordiale, apparendo una forma di “unità”, quasi parodistica, che è la spettrale solitudine dell’uomo precipitato nell’angoscia del vivere senza senso che non vede e non sente più alcunché di Divino né dentro né fuori di se.
E così, come è accaduto nella decadenza crepuscolare del Mondo Antico e come si è verificato e si sta verificando in codesta attuale tarda e larvale modernità, l’unica Via spirituale che resta da percorrere, mentre vige una febbricitante accelerazione verso il Basso, è quella insegnata ed esperita da Plotino, da Marco Aurelio o da Plutarco, ed è la Via del Rito filosofico interiore, quale Ascesi come Via Secca, in quanto ricostruzione eroica nel fondo dell’Animo della consapevolezza della identità e della presenza del Divino e ciò mediante il processo spirituale platonico di Rinascita-Risveglio-Rimembranza di Ciò che è presente (e che siamo da sempre…!).
La interiorizzazione dello Spirito è manifesta sempre nella fase della desertificazione del Mondo in quanto l’Io, come coscienza del proprio essere, fugge dal Nulla ed entra nel “momento” della ricerca del Centro, cioè in quella Centripeta.
L’accelerazione dell’Età Oscura verificatasi intorno al VIII-V sec. a.C. in tutte le culture tradizionali, ha provocato la ricerca del Fondo dell’Anima (il Centro) e la contestazione del liturgismo e del ritualismo vuoto nonché del formalismo cristallizzato nella morte della spirito, ed è l’apparizione della filosofia nell’Ellade, di Zoroastro in Persia che si qualifica come rito mentale purificatorio ed interiorizzato, del Principe Siddharta in India, dello stesso fenomeno del profetismo ebraico sino all’esperienza di Joshua il Nazareno; tutti questi “riformatori” o “rivoluzionari conservatori” provengono dal Culto e dal Rito pubblico, dal Sapere dei grandi complessi templari. Affinché tale processo universale dello Spirito, che è ciclico, sia ben esplicito, è necessario visualizzare nella interiorità noetica l’immagine della Spirale di Stefanio, simbolo fondamentale della Tradizione Ermetica ellenistica (sulla quale ho diffusamente scritto nel mio Il nome segreto di Roma, Roma 2013 nonché sempre nel mio Sul fondamento. Pensare l’assoluto come risultato, Genova 2014, pp. 61 ss.); esso contiene, anzi è il succedersi della inspirazione-contrazione-coagula del movimento Centripeto, corrispondente all’incombenza ed alla predominanza delle Tenebre e coincide con la fuga verso il Centro dell’Anima e la ricerca della Luce nel Fondo della stessa che è il Centro medesimo della Spirale, ecco la interiorizzazione nonché l’intero percorso di discesa “ad Inferos” dove si vivono e si conoscono Astri-Numi-Metalli come oscuri e lebbrosi, è il coagula-contrazione che ha in sé anche il solve come scioglimento degli Elementi (il Fondo dell’Anima quale antro privo di Luce), e inizio della risalita come sublimazione di quel solve che è il salvifico e catartico riconoscere la natura Divina di quell’antro che si manifesta infatti quale cattedrale di Luce e sede del Dio ed è il percorso verso il nuovo Mondo o meglio una nuova esperienza dello stesso Mondo e quindi degli stessi Dei che, ora, sono conosciuti come luminosi ed è la uscita verso la periferia estrema della Spirale, come viaggio ai confini del Mondo, e coincide con la edificazione dell’Impero che è la massima gioia e la suprema fiducia dello Spirito in una espirazione-dilatazione-solve come apertura al Mondo e tensione massima della Identificazione dello Spirito dell’uomo con lo Spirito del Mondo in quanto sono Uno nei Molti ed i Molti nell’Uno; tale uscita è la rinascita della civiltà e quindi del Rito pubblico e della cultualità comunitaria. L’Athanòr è, però, in perenne movimento di inspirazione ed espirazione, essendo il Vivente e tutto ciò ritornerà, nell’altro “momento” di accelerazione della Caduta, ad oscurarsi poiché lo Spirito (dell’uomo) tornerà a non vedere più la Luce e non riconoscerà, di nuovo e come nel precedente Ciclo, il culto dovuto agli Dei (Plotino, infatti, conoscendo il significato della Caduta, afferma: “Non io devo andare agli Dei ma gli Dei venire a me! ”; nonché “non essere buoni e virtuosi è il compito ma essere Dei!” ) e tale Sapere è presente anche in Hegel il quale, in quanto sapiente ermetico, non fa che sistematizzare in termini logici cioè noetici, il discorso simbolico della Spirale di Stefanio, rivelando che il Sapere filosofico non solo è la suprema conoscenza ma, come la nottola di Minerva s’invola al crepuscolo e quindi all’approssimarsi delle Tenebre della notte, esso Sapere, come processo spirituale, appare proprio al crepuscolo delle civiltà ed in termini noetici, viene “dopo” la esperienza religiosa che, implicitamente, coincide con il precedente momento della esteriorizzazione cultuale e cerimoniale dello Spirito che è il movimento verso l’esterno, la periferia della Spirale. La verità in ordine alla Conoscenza suprema che si conquista come Identificazione-realizzatrice alla fine del Ciclo nella realtà Centripeta, nonché come l’altro aspetto della medesima verità, relativo all’uscita da esso movimento Centripeto, avviandosi verso il movimento Centrifugo, dove quella Conoscenza è perduta e viene conosciuta nel nuovo e successivo Ciclo in forma mitico-religiosa, è esplicitamente ed in guisa straordinaria ribadito da Aristotele (Metafisica, XII, 86,1074a, 37b 14 )
In ciò consiste la natura profonda della presente Età e della unica ed inequivocabile efficacia operativa del Rito plotiniano interiore come Ascesi filosofica in quanto processo di conoscenza-esperienza del più oscuro Fondo dell’Antro, al fine, vincendo la paura e l’angoscia, di vedere la Luce mediante la Luce, vincendo, fino a che ciò sia possibile e nei limiti della permanenza nel corpo e nella vita, la stessa necessità insita nella Legge cosmica del Ciclo.