Julius Evola
Autobiografia spirituale
a cura di Andrea Scarabelli, Edizioni Mediterranee, Roma 2019
Con la formidabile curatela di Andrea Scarabelli è recentemente uscito un volumetto assai prezioso per confrontarsi con il filosofo tradizionalista Julius Evola: Autobiografia spirituale (Mediterranee, Roma 2019). Il testo, impreziosito dalla prefazione di Gianfranco de Turris, Presidente della Fondazione Julius Evola, riporta la traduzione di due interviste, inedite in Italia, che l’autore concesse nel 1969 e nel 1970 a una troupe televisiva francese. Disponibile integralmente su YouTube, ma lingua francese appunto, il dialogo con Evola fu realizzato in due momenti diversi: da Dominique de Roux, che il 19 luglio 1969 interloquì con l’«idealista magico» in merito alla sua partecipazione al movimento dadaista e ai suoi rapporti con Ezra Pound, e da Jean-José Marchand, coadiuvato da Marco Dolcetta, che lo intervistò il 18 ottobre 1971 sull’evoluzione della sua opera nelle diverse fasi della via del Cinabro.
Il documento è poi arricchito da corposi apparati: tre articoli degli anni 1927/1928, a firma Iagla ed Ea, pseudonimi attribuibili allo stesso Evola e risalenti all’esperienza del sodalizio magico di Ur, i saggi del curatore Andrea Scarabelli e dello studioso Alessio de Giglio, nonché diverse immagini a colore tratte da alcune sequenze dell’intervista.
Autobiografia spirituale è un testo destinato a far discutere. Se, per certi versi, i temi su cui Evola è interpellato dagli intervistatori possono far intendere il volume come una riduzione della sua autobiografia spirituale, Il cammino del cinabro, le differenze sono significative. Dipendono, in primo luogo, dalla modalità comunicativa dell’intervista, che restituisce un Evola più umano – nietzscheanamente menschlich allzu menschlich –, a tratti ironico e pungente, e che, nel contempo, lo induce a lanciarsi in formulazioni teoretiche ardite, adeguate, su certi temi, a gettare una luce interpretativa potente mediante cui esaminare proficuamente, con un passo rinnovato, l’intera sua opera. Per ognuno di questi piani, ci limiteremo a un solo esempio.
Il primo ci racconta un Evola davvero fuori dal coro, divertente e politicamente scorretto; dopo aver rivendicato la sua libertà relazionale ed erotica («vede, da un punto di vista sessuale, non sono per la monogamia»), l’«idealista magico» risponde a quanti lo accusano, in virtù del suo interesse per il tantrismo e l’occultismo, di celebrare messe nere con giovani fanciulle bionde: «Date le mie attuali condizioni [ricordiamo che Evola si trovava paralizzato, in sedia a rotelle], verrebbe da rispondere con queste parole tedesche: Zu schön um wahr zu sein, “Troppo bello per essere vero!”». Una battuta che lascia tuttavia trasparire il profondo – e serissimo – interesse che Evola sempre rivolse al sesso nella sua dimensione autenticamente sovrasensibile, quella Metafisica del sesso che, compendiata nell’omonima opera del 1958, sempre sarebbe riemersa nella produzione saggistica e financo pittorica del nostro.
Il secondo riferimento va invece a una formulazione cristallina di un principio metafisico capace di illuminare una questione che assilla lettori ed esegeti evoliani da tempo immemore. Come conciliare, nella sua opera, gli scritti giovanili, improntati a un parossistico soggettivismo volontarista, nichilista e idealista, con le opere della maturità, ispirate alla metafisica solare e assoluta delle forme e dei princìpi del Pensiero di Tradizione? In Autobiografia spirituale Evola sembra esplicitare un non-detto che attraversa forse la sua intera opera, dal Dada a Cavalcare la tigre:
«Non esiste affatto una realtà “dietro” a un’altra realtà, ma esistono differenti modalità di sperimentare una sola cosa. […] Se l’uomo cambia il proprio essere, allora percepirà la stessa realtà in altre forme. È come una radio, lei può schiacciare un tasto e sintonizzarsi su differenti lunghezze d’onda. Allora percepirà canali diversi. Non esiste un mondo relativo e un mondo assoluto, ma uno sguardo relativo e uno sguardo assoluto. »
Quest’ultimo era peraltro già stato scorto da Evola almeno nel 1927: in Esperienze: la legge degli enti, uno degli articoli riportati nel volume a firma di Iagla, si parla di uno «stato di chiarezza o di evidenza», che «non conosce più ragionamenti, concetti, dubbi», ma soltanto «bisogni profondi, vissuti, di conoscenza, ai quali segue il balenio di una evidenza diretta, una idea con carattere di rivelazione, di certezza assoluta, perentoria, percuotente».
A esser chiarita è la dottrina delle due nature di Rivolta contro il mondo moderno: essere e divenire non sono stadi storici o dimensioni esterne, bensì stati interiori dalla realizzazione sempre possibile nell’hic et nunc. Viene così offerto un fondamento filosofico al lavoro di trasformazione interiore che solo può realizzare la renovatio mundi e lasciare apparire l’immanifesto. Esso si realizza plasticamente in quel dominio di forme pure ed elementari che Evola ha delineato lungo tutta la sua opera, dall’intuizione di un «classicismo nuovo, liberato dall’Io, fatto d’azione e dalla volontà di un “realismo sempre più reale”» (Superamento del romanticismo, in «Vita Nova», gennaio/febbraio 1931) alla scoperta di un possibile reale «vissuto in uno stato in cui non c’è soggetto dell’esperienza né oggetto che venga sperimentato, che sta nel senso di assoluta presenza» (Cavalcare la tigre, Scheiwiller, Milano 1971).
Perché, in fondo, bionde fanciulle e sguardo assoluto non sono che esperienze su piani distinti di quella realtà una che non smette d’importunare nemmeno noi, uomini postmoderni, con la forza del suo intrinseco mistero.