La Prussia orientale è una regione di un paesaggio monotono, solitario e brullo. Quando non è ricoperta delle nevi invernali, sotto un cielo di un azzurro sbiancato plache sabbiose si alternano a laghi grandi e piccoli senza numero e a boschi di alberi fitti dai tronchi dritti e alti che formano isolotti o si estendono per vaste distese senza altra vegetazione. Rari sono i paesi, poche le vie.
In quella regione Hitler nel 1944[1] aveva stabilito il suo quartier generale a qualche chilometro dalla stazione ferroviaria di un borgo chiamato Rastemburg. Esso consisteva in alcuni baraccamenti nascosti in uno degli isolotti di alberi fitti, che per l’uniformità del paesaggio sarebbe stato assai difficile distinguere dagli altri con la ricognizione aerea. Circondato da un duplice sbarramento mimetizzato e guardato dalle SS, esso aveva vicino dei binari morti partenti dalla stazione di Rastemburg. Su di essi, con l’aspetto di vagoni merce abbandonati costeggianti la strada, vi erano due gruppi di carrozze da treno speciale. Uno di essi era destinato come alloggio agli «hohen Gaste», cioè ai personaggi che di volta in volta erano ospiti lassù del Führer.
È là che mi trovai ad essere nel settembre del 1944 è [sic]. A Berlino, mentre mi accingevo a far ritorno a Roma, mi era stato detto che il ministro di Stato e mio amico Giovanni Preziosi, dopo il 25 luglio era riparato in Germania, vicino a Monaco, desiderava vedermi. Nella ridente cittadina termale bavarese che ospitava Preziosi ci sorprese l’8 settembre. Appena giunta la notizia del tradimento italiano, da Monaco un aereo, sfuggendo alla caccia alleata, trasportò Preziosi e me al quartier generale di Hitler. E là, nel treno degli ospiti, ci trovammo insieme a vari capi del fascismo che già avevano lasciato l’Italia: Pavolini, Ricci, Vittorio Mussolini, Farinacci e alcuni altri, oltre a due giornalisti. Essi erano stati ospitati in attesa degli sviluppi della situazione italiana. Ognuno aveva come alloggio due scompartimenti comunicanti delle carrozze letto. Vi era poi un intero vagone a salotto per la mensa e per le riunioni e un altro vagone con installazione radio. Da qui cominciarono subito, a cura del gruppo degli ospiti, le prime trasmissioni fasciste.
Mi ricordo di quel treno immobile sulle monotone distese e sotto l’alto pallido cielo della Prussia Orientale come di un luogo memorabile di attesa e di decisioni storiche. Poco si sapeva di ciò che stava succedendo in Italia.
Si ignorava la sorte di Mussolini e l’atteggiamento di una parte del popolo italiano, dopo la tragica farsa badogliana. La Germania doveva ormai intervenire, non solo nel settore militare. Ma in che modo? E appoggiandosi a chi?
Confinati in quella terra nordica, vari giorni passarono in una tensione crescente. Il treno immobile dove abitavamo era quasi un simbolo della situazione. La fedeltà personale di Hitler di fronte a Mussolini era il motivo principale del tempo di arresto: prima di compiere un passo politico decisivo si voleva sapere della sorte del Duce. Per questo Farinacci, che perentoriamente esigeva una iniziativa decisa e immediata per la raccolta di tutti coloro che erano rimasti in piedi in Italia, fu tenuto in disparte. Del resto, era anche da chiedersi, di chi ci si potesse veramente fidare, chi fosse all’altezza della situazione.
Intanto l’unica attività era quella della emittente radio fascista del nostro treno, collegata con Radio-Monaco per l’ulteriore diffusione. Pur riempiti di discussioni, di disamine, di progetti nella vita in comune, i giorni erano lenti a passare. Ognuno di essi sembrava che portasse ad una perdita irreparabile. I più erano impazienti di tornare in Italia per prendere un contatto diretto e operante con la situazione creatasi.
Da una specie di parete di silenzio frapposta dai tedeschi (in quei giorni, dei capi fu accessibile quasi soltanto Ribbentrop), trapelò alla fine qualche notizia. Senza che lo sapessimo, Hitler si era deciso a chiamare colà il ministro Tassinari. La necessità di creare infine un governo da contrapporre a quello dell’Italia dell’8 settembre apparve improrogabile. L’idea di Hitler era di far sorgere un nuovo governo italiano, però quasi apolitico, di pura amministrazione, accanto alla Wehrmacht combattente. A tale fine si era pensato a Tassinari, come ad un elemento serio, integro e competente. La cosa sembrava avviarsi alla conclusione. Tassinari – lo sapemmo in seguito – aveva già sottoposto ad Hitler una lista di nomi pel nuovo governo. Ma erano state fatte delle riserve, nel senso che si desiderava che anche qualche nome di uomini fidati muniti di prestigio del Ventennio venisse incluso.
Alla vigilia della decisione definitiva giunse d’un tratto a Rastemburg la notizia della liberazione del Duce. Da Vienna, dove era stato subito trasportato, egli telefonò al figlio Vittorio. L’indomani sarebbe stato a Rastemburg.
Vi giunse la sera[2]. Dopo essersi incontrato con Hitler Mussolini ci chiamò tutti nella baracca del Führer. Aveva ancora indosso gli abiti borghesi sgualciti che portava al momento della sua liberazione al Gran Sasso: ricordo le scarpe pesanti e sporche e una cravatta tutta attorcigliata. Aveva una cera speciale luce, una esaltazione febbrile negli occhi. Noi eravamo i primi italiani e fascisti che vedeva da libero. Parlò animatamente delle ultime vicende attraversate, comunicò i suoi piani più immediati, sembrò pervaso di ottimismo. Gli alleati sarebbero stati ricacciati in mare da Salerno – egli disse, per le notizie dei primi successi tedeschi che Hitler gli aveva comunicato. Già nel Sud si sarebbe creato uno sbarramento. Fare appello al seno di onore e alla fierezza del popolo italiano. Riorganizzare le forze politiche e militari. Mi ricordo che a quel punto non potei trattenermi dal dire a Mussolini: «ma la flotta non tornerà». E Mussolini, fissandomi, esclamò: «ah, la “mia” flotta!».
Mussolini era visibilmente stanco. Dopo circa un’ora ci congedò. Ci trattenemmo ancora nella sala degli ospiti del baraccamento del Führer. Lo Stato di esaltazione e di entusiasmo che dominava è immaginabile, dopo la tensione dei giorni precedenti. Si bevve, si brindò, si fumò. Conservo un foglio preso da una scatola di sigari che ci erano stati offerti, su cui per ricordo la maggior parte dei presenti di quella memorabile sera pose la firma. Vi è anche quella di un ufficiale della Wehrmacht al servizio diretto di Hitler che si unì a noi.
Tornammo nel treno immobile – l’immobilità simbolica ormai avrebbe avuto termine. L’indomani mattina giunse, per la diffusione alla Radio, il primo foglio d’ordine del Duce, che annunciava il nuovo governo fascista e la repubblica. Può essere interessante notare che la decisione storica, gravida di un problematico destino, del mutamento istituzionale Mussolini la prese da solo, dopo che lo lasciammo, senza che avesse visto più nessuno, almeno degli Italiani. La Nemesi attraverso Vittorio Emanuele doveva colpire lo stesso principio tradizionale di cui il re era stato il rappresentante.
All’indomani, dopo circa una settimana trascorsa nel treno immobile in mezzo ai boschi, ai laghi e alle sabbie della Prussia Orientale, si prese la via del ritorno. Degli aerei trasportarono gli ospiti del treno verso il sud, pei compiti assegnati a ciascuno.
(Il Secolo d’Italia, 31 gennaio 1964)
[1] È un evidente lapsus di Evola per 1943, oppure un macroscopico refuso.
[2] Del 14 settembre 1943.