Farinacci

Recentemente il nome di Roberto Farinacci è ricorso nella nostra stampa, non solo pel problema del destino delle sue spoglie mortali, ma anche per spunti polemici suscitati da un apprezzamento poco adeguato fatto, sulla sua persona, da qualcuno che, pure, non appartiene all’antifascismo. In genere, intorno a Farinacci si è creato un mito dai tratti non sempre favorevoli. Si è parlato di una funzione antimussoliniana e frondista di Farinacci, che avrebbe potuto svilupparsi fino ad un soppiantamento. Si è discusso il suo atteggiamento nella riunione del Gran Consiglio del 25 luglio. Dagli altri, Farinacci viene poi volentieri presentato come l’espressione di un fascismo «squadrista», rude, «bieco» ed estremista, nemico della cultura e del pensiero.

Tutto ciò è fondamentalmente falso e credo che sia giunto il momento di porre la figura del Farinacci nella sua giusta luce. Essendogli io stato a fianco per un lungo periodo come collaboratore, vorrei portare un contributo con alcuni ricordi di Farinacci. Egli era essenzialmente un uomo che aveva un carattere e che quando si trattava di una causa giusta non intendeva piegare il capo dinanzi a nessuno. Di fronte a Mussolini, il suo atteggiamento lo si può definire così: un capo che obbedisce liberamente ad un capo, ed è questo il tratto che lo differenziava, ad esempio, da Starace, la cui obbedienza, senza ingiuria, io la potrei definire da «sottufficiale». Ciò può aver urtato, in alcuni casi, la suscettibilità di Mussolini: ma non vi è dubbio che se intorno al Duce vi fossero state più persone col carattere di Farinacci, il risultato sarebbe stato solamente positivo.

A partire da un certo periodo Farinacci, associato a Giovanni Preziosi, fu colui che, senza riguardo per persone o interessi di gruppi, dinanzi a Mussolini accusò tutto ciò che nel fascismo non andava. Inutile ricordare tanti casi tipici noti, come quello di Ernesto Belloni, podestà di Milano smascherato e defenestrato grazie a Farinacci, e si potrebbe andare fino alla violenta polemica con Badoglio, che dimostra quale preveggenza avesse Farinacci. Appunto per questo loro tirar diritto senza temere «grane», senza scansare responsabilità, Farinacci e Preziosi erano temuti. Entrambi, nel fascismo, erano effettivamente dei «puri». Il giornale di Farinacci, Il Regime Fascista, e la rivista di Preziosi, La Vita Italiana, erano i due organi fascisti che ignoravano il conformismo, che potevano permettersi di dire tutto quello che andava detto. E dei rapporti informativi di Farinacci o di Preziosi andavano direttamente al Duce per aprirgli gli occhi su tutto ciò che era opportuno che sapesse senza persone interposte. Ma, come amaramente lamentava Preziosi dopo la catastrofe, spesso si ripeteva il destino di Cassandra. Molto era come se non fosse stato detto.

Farinacci si rendeva conto che un regime, come quello fascista, in momenti di emergenza abbisogna di un polso di acciaio. E come egli intervenne ad impedire uno sbandamento in occasione del caso Matteotti, così una risolutezza analoga egli intendeva che venisse dimostrata nel clima di crisi che condusse al 25 luglio.

Come punto particolare, non è affatto vero che Farinacci fosse l’esponente di un fascismo delle vie brevi, insofferente per ogni dottrina ed ogni cultura. Anzitutto politicamente Farinacci difendeva una tendenzialità di destra, vedendo di poco buon occhio le ingerenze «guelfe» nel fascismo e rifiutandosi, contro Bottai, di ridurre al corporativismo l’essenza della rivoluzione ricostruttrice: due punti, in cui le sue e le mie idee collimavano perfettamente. La stessa posizione di destra, opposta ad ogni slittamento nella direzione puramente «sociale», farinacci doveva assumerla nello stesso periodo della Repubblica di Salò, in ciò difendendo il retaggio del miglior fascismo.

Poi, nel campo della cultura, Farinacci conosceva i suoi limiti, a differenza di altri «gerarchi» non intese oltrepassarli e non ostacolò, ma favorì chi volesse combattere per una cultura veramente nuova, rivoluzionaria. Qui cade accennare ad una iniziativa poco nota, in cui chi scrive ha avuto personalmente una parte. Dandomi pieni poteri dopo un’intesa preliminare su alcuni princìpi fondamentali, Farinacci mi incaricò di organizzare e di dirigere una speciale pagina periodica de Il Regime Fascista recante il titolo: «Problemi dello spirito nell’epoca fascista». Questa iniziativa, che si continuò fino a guerra inoltrata, rappresentò – mi sia lecito dirlo – qualcosa di unico nel suo genere. Si sa che il quadro della cosiddetta «cultura fascista» nel Ventennio fu purtroppo dei più tristi. A differenza di ciò che accadde in Germania (seppure talvolta in eccesso), si aveva la superstizione dei «nomi»; pur di ottenere da essi un ossequio formale e conformistico al fascismo, furono arruolati o tollerati scrittori, intellettuali e ricercatori conosciuti che come sostanza erano agnostici o larvatamente antifascisti (tali, del resto, in seguito dovevano spessissimo dimostrarsi). Donde lo scandalo di coloro che per tre quarti componevano l’«Accademia d’Italia». Donde l’assoluta insignificanza dell’«Istituto di studi romani». Donde il carattere sfaldato dello stesso «Istituto di cultura fascista» che, dopo essere stato un feudo regionale dei gentiliani di stretta osservanza, nulla di organico e di veramente, anticonformisticamente fattivo seppe mettere su. L’unica eccezione era forse la «Scuola di mistica fascista», se avesse avuto il tempo di svilupparsi adeguatamente.

Ebbene, con l’accennata pagina de Il Regime Fascista Farinacci ed io volevamo contribuire ad una cultura che fosse fascista (fascista in direzione di destra non solo politicamente, ma anche spiritualmente, tradizionalmente) non di nome e per un continuo parlare del Duce e del fascismo, bensì di fatto per una rigorosa, impersonale aderenza a delle idee precise da applicare ad ogni dominio del pensiero, dell’etica, della spiritualità. Ciò, fino al punto che, laddove era difficile, allora, che si potesse essere bidelli se non si aveva la tessera, questa non era la condizione per collaborare in quella pagina del massimo organo dell’ortodossia fascista, dopo il Popolo d’Italia. Io stesso non ero inscritto al Partito, e Farinacci seppe solo apprezzare chi, non essendovi tenuto per un vincolo politico, contribuiva alla causa. Peraltro, quella pagina, oltre a nomi di Italiani, vide quelli di collaboratori stranieri di rango, come R. Guénon, Sir Charles Petrie, O. Spann, il principe C. A. Rohan, Gonzague de Reynold, F. Everling, E. Dodsworth, ecc. fino ad uno scritto dello stesso Himmler.

Se devo limitarmi a questi cenni, anche da essi può venire luce sulla vera figura di Farinacci. Egli resta per me una figura indimenticabile di uomo retto, leale, coraggioso e libero, lontano da ogni cortigianismo e da ogni tortuosità, radicalista e di pugno fermo là dove occorreva, in pari tempo con l’animo aperto anche per valori d’ordine superiore.

(Meridiano d’Italia, 8 maggio 1955)