L’opera di Demetrio Merezkovski, uscita or ora in una traduzione italiana, sotto il titolo di Atlantide (Hoepli, Milano, 1937) non solo è fra le più significative in tutta la produzione di questo grande scrittore russo, ma costituisce anche qualcosa di unico nel suo genere nella letteratura contemporanea. È un’opera di sintesi: le facoltà intuitive di un artista qui si applicano ad un materiale di conoscenze e di testimonianze tratte dai dominî più varî – dalla storia delle religioni alla geologia, dalla paleontologia alla mitologia comparata all’antropologia – e lo anima, lo “fa parlare”, lo organizza intorno ad alcune idee fondamentali, cui poi lo stile personale dell’autore dà uno straordinario potere suggestivo e una forte drammatizzazione.
Il libro va soprattutto segnalato in riferimento al suo metodo. Per esplorare il mondo delle origini, per sorprendere il segreto delle civiltà primordiali, bisogna portarsi su di un piano in cui, come dice giustamente il Merezkovski, la storia, il mito e il mistero divengono elementi solidi e indivisibili di un tutto. Il mondo che si suole chiamare “preistorico” è effettivamente un mondo qualitativamente diverso dal nostro, diverso non per via di una maggiore o minore lontananza cronologica, ma per una diversa struttura, per un diverso rapporto fra l’umano e lo spirituale, fra ciò che è storia e ciò che è superiore alla storia e che come tale sempre sfuggirà ai cosiddetti accertamenti “scientifici”. Il mondo delle origini, lungi dall’essere, come ancor oggi molti lo suppongono, un mondo semibestiale e primitivistico, fu un mondo nel quale realtà e simbolo, verità e mito spesso interferirono. E ciò indica già il metodo che deve seguire, chi voglia inoltrarvisi: costui deve cercare di estrarre dai miti antichi il loro aspetto di storia e deve simultaneamente raccogliere gli sparsi frammenti di storia, che ci son pervenuti da quei tempi primordiali, intorno ad alcuni punti unitari di riferimento, che solo il mito può offrire.
Naturalmente, per poter condurre seriamente e impersonalmente un simile ordine di ricerche occorre qualcosa d’altro ancora, cosa che il Merezkovski riconosce, dicendo che storia e mito si completano col mysterium. È facile, infatti, perdersi nella fantasticheria, quando il controllo rigido dei fatti finisce col riguardare soltanto un dominio parziale e subordinato. Per poter andar oltre, occorre possedere o una speciale intuizione, o i dati di un insegnamento tradizionale regolare, ovvero, ed ancor meglio, l’una e altra cosa, cioè un potere intuitivo che agisce sulla sicura base di una conoscenza tradizionale. Effettivamente solo in quest’ultimo caso si può esser quasi del tutto al riparo di ogni deviazione. La semplice intuizione può, sì, far cogliere qua e là, come per lampeggiamenti, molte cose importanti, ma essa non ha, in fondo, modo di assicurarsi contro le brusche irruzioni della fantasia, che, quando il singolo procede da solo, in nulla può esser più controllata.
Dobbiamo dire che quest’ultimo, in una certa misura, è anche il caso del Merezkovski; il quale, per così dire, ci appare come una specie di “libero tiratore” agli avamposti delle nuove correnti di metafisica del mito. È per questo che già abbiamo detto, che in lui l’esempio di un metodo nuovo è quello che più conta; quanto ai risultati, essi non hanno tutti lo stesso valore, bisogna separare un lato positivo, suscettibile ad essere senz’altro confermato dal vero insegnamento tradizionale, da un altro lato, che purtroppo risente di vedute personali dell’autore. Vediamo brevemente di che si tratta. Il Merezkovski non si dà tanto alla mera ricerca del fatto bruto, se l’Atlantide, il leggendario continente posto fra America ed Europa, sia o no esistita; ma si dà, anzitutto, a ricostruire la storia e la tragedia di una grande civiltà primordiale attraverso le testimonianze concordanti delle tradizioni, dei miti e dei documenti più varî; poi, in un secondo tempo, cerca di connettere il destino di tale civiltà appunto a quanto si narra circa l’Atlantide e la sua fine.
Il fatto è che, in una forma o nell’altra, le tradizioni di tutti i popoli contengono il ricordo di una civiltà o umanità primordiale, di carattere superiore e quasi “divino”, e conservano parimenti il ricordo di una catastrofe, che la travolse e distrusse, chiudendo un grande ciclo storico, aprendone uno nuovo. Così, tutte le tradizioni parlano di una “età dell’oro”, di una “terra del sole”, di un “paradiso terrestre”, di una “terra dei viventi” o degli “immortali”, e così via – e tutte ricordano un diluvio, o analoghi sconvolgimenti, o “castighi” di varia specie. Tutto ciò non è fantasia mitologica, dice il Merezkovski, ma è anche storia. È il mistero dell’Atlantide. E la storia non nega, ma potenzia e illumina tragicamente il contenuto di verità del mito.
Sennonché il Merezkovski commette l’errore di riportare all’unico punto di riferimento “Atlantide” delle realtà storico-mitiche spesso assai diverse. L’Atlantide può considerarsi come l’ultimo atto di una serie di tragedie preistoriche, e la sua civiltà non è per nulla quella della “prima umanità”. Secondo l’insegnamento tradizionale, ciò che sta effettivamente all’inizio del ciclo storico che giungerà fino a noi non fu l’Atlantide, ma la cosiddetta “Terra degli Iperborei”, anch’essa, come si dice, scomparsa per via di un mutamento geofisico il quale avrebbe coperto di ghiaccio la regione corrispondente. Non si può far però troppo torto al Merezkovski per questa confusione, giacché, nelle varie testimonianze spesso i ricordi relativi all’Iperboride si sono sovrapposti e mescolati con quelli più recenti e vivi relativi all’Atlantide. Non solo: per il fatto che la civiltà atlantidea, originariamente, in alcune sue parti, sembra aver riprodotto il tipo stesso della assai più remota civiltà iperborea, si fu portati spesso a riferire a quella molte cose che effettivamente si riferivano a questa, per via di analogia.
Il Merezkovski tocca un punto molto importante, parlando di una solidarietà fra cause geofisiche e cause spirituali o metafisiche. La catastrofe della umanità atlantidea e della sua civiltà titanicamente grandiosa non sarebbe stata casuale, irrazionale. Essa sarebbe stata provocata da un fatto spirituale, attraverso leggi occulte che connettono l’interiore e l’esteriore, le forze dell’uomo e le forze delle cose. Anche ciò è, di massima, conforme all’insegnamento tradizionale. È nell’interpretazione della causa prima, interiore, della catastrofe che invece cominciano ad entrare in giuoco vedute personali, e quindi arbitrarie, dell’Autore.
Vi è ancora del giusto quando, nel riguardo, il Merezkovski si limita a parlare del trapasso da una civiltà sacrale di “uomini simili a dèi” a una “civiltà titanica”. Col subentrare della violenza, dell’orgoglio, della prevaricazione prometeica, della “magia nera”, cioè di un uso inferiore di forze spirituali e di speciali riti, con tutto ciò, come lo dice la tradizione ebraica, “le vie della carne furon guaste sulla terra”, si produsse una specie di evocazione di forze abissali, le quali alla fine dovevano dar luogo allo stesso cataclisma geofisico.
Questo è il senso di molte tradizioni concordanti, nelle quali si deve vedere qualcosa di più che non una semplice mitologia; e già il fatto di tante corrispondenze di motivi là dove, secondo le conoscenze comuni, non avrebbe potuto stabilirsi alcuna trasmissione, è molto significativo. Il Merezkovski cade però in un grave equivoco circa i caratteri dell’epica non ancora “titanica”, e diciamo subito perché. Tutti sanno, più o meno, dell’insegnamento esiodeo circa le quattro età, età dell’oro, dell’argento, del rame, del ferro, che rappresentano altrettante fasi di un progressivo oscuramento spirituale e di una specie di caduta lungo la storia: in forme corrispondenti, lo stesso ricordo si trova anche in Oriente e nella stessa America precolombiana. Ora, l’età dell’argento è già un’età di decadenza: è l’età “lunare” e quasi matriarcale, l’età della “pace”, dell’indifferenziazione semicomunistica e di un’armonia quasi panteistica con la natura – tutte cose, queste, che non hanno nulla a che fare con i caratteri solari, di potenza spirituale, di alta tensione metafisica e di olimpica regalità che invece sempre sono stati attribuiti alla vera “età dell’oro”, alla prima età: benché, per via di quel sovrapporsi o stratificarsi di ricordi, di cui si è detto, non di rado i documenti presentino delle confusioni, atte a trarre in inganno e a sviare chi non disponga dei necessarî punto di riferimento dottrinali. Il Merezkovski è portato appunto ad una confusione del genere, epperò ad un’ulteriore spiegazione, cristianeggiante, affatto campata in aria, della catastrofe: la civiltà atlantidea, ad un certo momento, avrebbe eletta la legge della guerra e rinnegata quella della pace e dell’amore; avrebbe rubato il fuoco divino per tradurlo in forze di distruzione, in volontà di conquista, in una “civiltà demonica” macchiata di sangue; avrebbe trasformato il principio del sacrificio divino in quello della strage e dell’autodistruzione dell’umanità in nome della potenza.
Questo sarebbe stato il mistero dell’Atlantide e della fine dell’Atlantide. Questo sarebbe altresì il mistero dell’Occidente, ciò che fu e ciò che sarà; storia e simbolo. L’edizione originale (di cui, non si sa perché, la presente traduzione italiana non è che un sunto, amputato, fra l’altro, di tutti i riferimenti alle fonti) ha per titolo appunto: Il mistero dell’Occidente. Essa reca un’introduzione, nella quale l’autore si compiace di colorare con tinte apocalittiche le prospettive della prossima guerra mondiale. Ciò mostra la falsa strada che il Merezkovski ha presa sotto la spinta di un misticismo sospetto, umanitario e semicollettivista, di tipo specificamente slavo; misticismo, che non ha naturalmente nulla a che fare con ogni veduta tradizionale. La tragedia della prevaricazione titanica, epperò la necessità di integrare e trasfigurare mediante riferimenti davvero spirituali e trascendenti le forze evocate da ogni civiltà di tipo affatto “umanistico” e tellurico (tipo, cui anche la civiltà attuale, sotto varî aspetti, appartiene), sono cose serie. L’orrore per la guerra e l’identificazione della pace con la spiritualità non sono che “storie”, cioè fisime. Chi ha la natura di guerriero può trovare nella guerra vie di un superamento di sé e di una trasfigurazione tanto reali, quanto quelli che altri può invece conseguire attraverso l’ascesi, la rinuncia e l’umiltà. Ed è un fatto che non di rado congiunture tragiche collettive hanno propiziato reazioni spirituali e “risveglî” in un modo assai migliore che non nel clima idilliaco di una pace e di una “età dell’oro” malamente, “lunarmente” intesa.
Ma una volta, che il lettore si sarò reso conto di questi passi falsi, potrà facilmente separare e neutralizzare quanto nel libro ad essi si riferisce e concentrare il suo interesse sul resto; rendendosi conto di quante cose di straordinario interesse si trovano in questo libro, che, nell’ordine di quanto appare oggi nella pubblicità, difficilmente trovano riscontro altrove.
(Corriere padano, 11 settembre 1937)