Non si sa perché, nel mondo che si richiama al neofascismo è riscontrabile una recrudescenza degli attacchi alla figura di Julius Evola, sia sul piano personale, sia su quello delle idee. Abbiamo coniato il termine “evolofobi” per designare questa categoria di persone, stranamente appartenenti a quel mondo a cui comunque ha fatto costante riferimento pensatore tradizionalista nella sua vita.
Ed è veramente incomprensibile questa “caccia all’uomo” con argomenti a volte davvero inconsistenti. Sul piano personale, si fa l’analisi delle urine del filosofo per misurarne il “coraggio”, come se fosse il leone del mago di Oz. Si arriva al ridicolo di ascrivere ad una presunta “vigliaccheria” di Evola il suo partecipare alla Grande Guerra fra gli artiglieri, come se il corpo di destinazione dipendesse da una scelta del coscritto e, soprattutto, offendendo tutti gli artiglieri qualificati indistintamente come vigliacchi che si sottraggono alla prima linea. Così come si mette in dubbio che Evola abbia mai effettuato le scalate raccontate in Meditazioni dalle Vette[1], senza alcun argomento a sostegno di tale negazione[2].
Ma la domanda che “sorge spontanea” è un’altra. Come mai questa ricerca del “coraggio” non viene effettuata per altri pensatori? Giovanni Gentile aveva quarant’anni quando scoppiò la prima guerra mondiale. Nessuno si chiede come mai non vi partecipò come volontario? E Ugo Spirito? Uno dei punti di riferimento degli “evolofobi” non partecipò a nessuna campagna di guerra durante il fascismo.
Chi scrive non è certamente vicino al pensiero di Gentile e Spirito, eppure MAI si sognerebbe di attaccare l’uno o l’altro con argomentazioni così assurde. Tra l’altro, proprio la parabola di Giovanni Gentile dovrebbe aver insegnato agli evolofobi che anche le IDEE sono un pericolo per chi le professa e, come si suol dire oggi, “ci mette la faccia”. Il non aver partecipato ad azioni belliche non impedì al filosofo siciliano di morire ammazzato per le sue idee, per mano proprio di quelli che egli, nel Discorso agli italiani pronunciato in Campidoglio il 24 giugno 1943, aveva chiamato “corporativisti impazienti”.
Purtroppo, con questo riferimento ossessivo alla “vigliaccheria” di Evola, collegato a risse, mancati duelli, schiaffi non “restituiti”, unito al disprezzo per l’attività intellettuale, gli evolofobi non si rendono conto di portare acqua al mulino di chi ha del fascismo la visione macchiettistica di Primo Arcovazzi, il protagonista del film Il Federale di Luciano Salce, interpretato da Ugo Tognazzi. Il “mostrare i muscoli”, il disprezzo per gl’intellettuali, con la contrapposizione tra la macchietta Arcovazzi e l’antifascista prof. Bonafè, sembra quasi riecheggiare nella ossessionante ricerca delle virtù marziali di Evola da parte degli evolofobi.
Un altro Leitmotiv degli evolofobi è la sostanziale estraneità del pensiero di Evola a quella che LORO ritengono la “essenza” del fascismo. Qui, purtroppo, il problema attiene alla patologia più ricorrente del neofascismo. Circola una barzelletta, nell’ambiente. Tre neofascisti si avviano ad una riunione, entrano in ascensore per raggiungere il piano ove si dovrà tenere la riunione e, prima di uscire dalla cabina hanno fondato quattro partiti.
Certo, questo deriva dal fatto che, dopo la morte del Duce vero, ognuno pensa di esserne la reincarnazione e – quindi – non accetta un’altra leadership. Ma deriva anche dal fatto che ognuno si sente investito della Luce della Vera Dottrina Fascista. È veramente assurdo lo spettacolo che si consuma nel ridotto spazio del neofascismo: il fiorire di aspiranti dispensatori di “patenti” di “fascista” a destra e a manca. Il fascismo è stato un fenomeno storico in cui affluirono le anime più diverse: nessuno, specie a distanza di settant’anni dalla sua caduta può oggi “rivendicarne” la piena eredità.
Ma cerchiamo un po’ di capire gli evolofobi da cosa deducono la sostanziale estraneità di Evola al fascismo prima ed al neofascismo poi. C’è – innanzitutto – una questione “burocratica”: Evola non fu mai iscritto al PNF, né aderì alla RSI. Beh, al PNF erano iscritti, oltre a Dino Grandi, Giuseppe Bottai ed agli altri membri del Gran Consiglio che prepararono l’imboscata del 25 luglio, tanti, proprio tanti protagonisti dell’antifascismo militante a partire dall’8 settembre. Ed anche alla RSI aderirono tanti che saranno poi protagonisti nell’Italia antifascista del dopoguerra, a cominciare dal “Nobel per caso” Dario Fo, che diede supporto logistico a gente come Achille Lollo, responsabile del rogo di Primavalle[3]. Mentre, guarda caso, non aderì alla RSI uno dei “fari” degli evolofobi, Ugo Spirito.
Ma quel che conta, è altro. Evola, per il rifiuto occhiuto della sua iscrizione al PNF, non poté partecipare alla guerra, ed il 25 luglio era a Roma. Avrebbe potuto acquattarsi, aspettare gli eventi, come fecero in tanti, compreso un futuro segretario nazionale del MSI. Invece, passato un primo momento di incertezza, dovuto al badogliano “la guerra continua”[4], quando capisce dove vogliono andare a parare, prima cerca di organizzare il “dopo”, tra l’altro salvando l’archivio Preziosi a Napoli prima dell’arrivo degli Alleati attraversa l’Italia per mettersi a disposizione delle forze dell’Asse andando a Berlino e, dopo l’8 settembre, raggiunge il quartier generale di Hitler a Rastenburg dove è tra i primi ad accogliere il Duce dopo la liberazione dal Gran Sasso, torna a Roma, poi ancora a Vienna, dove viene colpito dai bombardamenti…[5]
Ma, soprattutto, ove si fosse limitato ad aspettare gli eventi, a guerra finita avrebbe potuto “esibire” come un trofeo le sue vicissitudini con il regime, a partire dalla diffida di PS ai sensi dell’art. 166 TULPS, che diffidava Evola a non proseguire la pubblicazione del quindicinale La Torre[6], in seguito alla quale venne interdetta in pratica la pubblicazione del periodico, mediante intimidazione a tutti i tipografi che avrebbero potuto stamparlo.
Ma Evola, nella Repubblica “democratica e antifascista”, avrebbe potuto far valere come un trofeo le varie segnalazioni delle aggressioni squadristiche subite, tra cui quella subita da parte di Asvero Gravelli il 16 giugno 1930, risultante da un fonogramma della Prefettura di Roma alla Direzione Generale di P.S. del giorno successivo[7].
E invece… Invece nel dopoguerra “democratico e antifascista”, Evola rivendicò sempre la sua adesione al Fascismo, inteso non come dato burocratico della tessera e della “cimice”, ma come adesione ai principi ideali che egli aveva visto incarnarsi nel Fascismo: è del 1950 la prima edizione di Orientamenti in cui egli prendeva sì le distanze da alcuni aspetti del Fascismo, tra cui il “gerarchismo” che egli contrappone alla visione gerarchica della società[8] , ma correlativamente rivendicava quella esperienza quale punto di riferimento per “resistere” alla decadenza verso cui il mondo era avviato dopo l’esito della guerra. La prima edizione del Cammino del Cinabro è del 1963. Nell’autobiografia, rivendica il suo essere fascista e richiama specificamente l’articolo intitolato Carta d’identità, su La Torre del 1° febbraio 1930, in cuispiega quale sia il suo concetto di “fascismo”[9], nonché un altro editoriale del n. 5 della rivista, intitolato Cose a posto e idee chiare, di cui richiamo le parole testuali: «Noi vorremmo un fascismo più radicale, più intrepido, un fascismo veramente assoluto, fatto di forza pura, inaccessibile ad ogni compromesso» [10]. Quanto alla “estraneità” delle idee evoliane al Fascismo, è questione di intendersi su cosa sia il Fascismo[11].
Ma alcune affermazioni sono davvero insostenibili. La più ridicola è quella che vedrebbe un Evola con la testa rivolta al passato, mentre il Fascismo guardava al futuro. A questo proposito, non è impertinente ricordare che Furio Jesi, quando cominciò ad occuparsi dei miti, dedicandosi anche al titanico compito della traduzione integrale di Das Mutterrecht di Johan Jakob Bachofen[12], rispose ai marxisti che lo accusavano di allontanarsi dai temi “classici” degli autori di quella tendenza, che non era possibile lasciare quei temi nel monopolio dei “fascisti” come Julius Evola[13].
Viceversa, alcuni evolofobi dànno davvero la sensazione di ritenere che la Storia sia cominciata il 23 marzo 1919.
È logico che non è così, né il miglior Fascismo ha mai abbracciato l’idea che l’Uomo Nuovo vagheggiato in tanti scritti dell’epoca sia un uomo privo di radici. Non commetteremo lo stesso errore degli evolofobi (di cui parleremo in seguito) nel confondere la scenografia propagandistica con l’essenza di una dottrina. Quindi non ci riferiremo di certo alle parate in onore della gloria dell’impero romano, alle denominazioni delle cariche della MVSN ricalcate dalla storia di Roma antica, e neanche al simbolo stesso del Fascismo, vecchio di 2500 anni. No. È qualcosa di molto più profondo.
L’idea di “Impero” è rivendicata con forza nel nome della missione secolare di Roma. L’impero fascista viene definito dal Duce «Impero di civiltà e di umanità per tutte le popolazioni dell’Etiopia. Questo è nella tradizione di Roma, che, dopo aver vinto, associava i popoli al suo destino»[14].
Ma non c’è solo questo.
Annota il suo medico: «Nelle sue ore libere si occupava con speciale godimento della filosofia della storia e non v’era certamente nessun filosofo dei tempi antichi e moderni di cui egli non avesse assorbito spiritualmente le opere. Di tutti i filosofi quello che si addiceva di più al suo spirito era Platone, del quale c’era sempre un volume nel testo originale e nella traduzione italiana sulla sua scrivania. Egli riteneva che i suoi insegnamenti fossero i migliori che uno spirito filosofico avesse mai potuto dettare. Poiché era egli stesso un vero idealista, le idee di Platone dovevano attrarlo particolarmente, per quanto anche Aristotele, che rafforzava l’alto valore delle idee platoniche con la sua acuta critica del ragionamento, fosse considerato da lui uno dei filosofi più interessanti dell’antichità. Sovente ripeteva con convinzione quasi ostinata che finora non molti filosofi erano riusciti a trovare qualcosa di più intelligente e di più profondo di quanto non avessero fatto Platone ed Aristotele. Mussolini aveva una visione molto precisa dell’evoluzione della filosofia greca e della sua continuazione attraverso certi pensatori romani, quali ad esempio Seneca e Marco Aurelio. Egli aveva studiato a fondo anche la filosofia indiana e persiana, e riconosceva la parte di essa avuta nella formazione della nostra coltura spirituale»[15].
Ed ancora: «Per poter sempre fare dei paralleli col tempo attuale e per poter penetrare sempre meglio il senso della storia, il Duce studiava con molta diligenza gli storici greci e romani quali Erodoto, Livio e Tacito, e amava ripetere che nessuno può dire di possedere una cultura veramente vasta senza conoscere le loro opere»[16].
Il fondatore del Fascismo vagheggiava sì un “Uomo Nuovo”, ma riteneva (come lo ritiene chi scrive) che la filosofia non aveva detto molto dopo la filosofia greca; e riteneva che la storia greco-romana doveva rappresentare la guida per conoscere e penetrare a fondo il “senso” della storia, anche attuale. Perché “studiare” roba vecchia di millenni? Come fa ad essere “fascista” tutto ciò? Perché il problema è: il “Fascismo” è quel fenomeno iniziato il 23 marzo 1919 e concluso il 28 aprile 1945?
Certo, come fenomeno storico è quello. Riproporlo OGGI, o anche riproporlo negli anni Cinquanta del secolo scorso sarebbe semplicemente patetico. Se ci si vuole rifare al Fascismo, bisogna trovare una lezione UNIVERSALE e riproponibile nel tempo, perché altrimenti dire “fascista” ha la stessa valenza che dirsi “lucumaciani” in contrapposizione a Massinissa… roba di 2200 anni fa…
Lo stesso antifascismo, oltre a celebrare la “resistenza” come mito fondante dell’attuale repubblica italiana, si propone come ipostasi di determinati “valori” che si pretendono universali[17].
È – dunque – nella capacità del Fascismo di incarnare Idee eterne, universali, che si misura la “attualità” dell’esperienza fascista.
Ed in questo senso, Evola è “fascista” nella misura in cui propone gli aspetti dell’esperienza fascista che incarnano quei principi che portano chi li abbraccia a contrapporsi all’attuale trionfo di quanto – nonostante tutto – il Fascismo s’impegnò a contrastare.
Quando si scrive: «Il vero significato del mito economico-sociale… è quello di un mezzo per l’anestetizzazione interiore o per una profilassi intesa ad eludere il problema di un’esistenza priva di ogni senso ed anzi a consolidare in tutti i modi questa fondamentale insignificanza della vita nell’uomo moderno»[18]; quando si scrive: «In effetti, prima dell’avvento della civiltà del Terzo Stato (mercantilismo, capitalismo), anche in Occidente come etica sociale religiosamente sancita valse quella di realizzare il proprio essere e di conseguire una propria perfezione nei quadri fissi che la natura propria di ognuno e il gruppo a cui egli apparteneva stavano a definire. L’attività economica, il lavoro e il guadagno apparivano giustificati nella sola misura in cui fossero necessari per il sostentamento e per la dignità di una esistenza conforme al proprio stato, senza che venisse in primo piano il basso interesse, il profitto»[19], ci si oppone alla centralità dell’economia, all’individuazione dell’Uomo come homo oeconomicus, semplice fattore della produzione, in coerenza con quello che fu il significato più alto della guerra del «sangue contro l’oro», significato che è ETERNO E SEMPRE ATTUALE[20].
Altra “accusa” ricorrente nei confronti di Evola, sarebbe quella per la quale egli “denigrava” il Risorgimento, di cui il Fascismo avrebbe rappresentato una linea di continuità. Non è vera né l’una, né l’altra affermazione. Evola non “denigrò” mai il Risorgimento. Il suo pensiero sul punto può così riassumersi: «…Il Risorgimento fu un movimento nazionale solo per accidente; esso rientrò nei moti rivoluzionari determinatisi in tutto un gruppo di Stati in conseguenza del diffondersi delle ideologie della Rivoluzione Francese… Occorre anzitutto distinguere, nel Risorgimento, il suo aspetto di movimento nazionale dal suo aspetto ideologico; inoltre bisogna separare i fatti eroici e combattentistici presi in se stessi dai significati che di là dalla consapevolezza dei singoli, risultano in un più vasto insieme, ciò nel quadro delle grandi correnti politico-sociali dell’Europa di quell’epoca… Al Risorgimento si deve l’unità dell’Italia, e qui non può trattarsi di fare il processo agli uomini e ai movimenti a cui, grazie ad un insieme assai complesso di circostanze, l’Italia dovette la sua unificazione e la sua indipendenza politica»[21].
Dunque, per Evola, vi sono due aspetti del Risorgimento: quello più prettamente nazionalistico, con i suoi risvolti eroici, e quello “ideologico” attraverso cui si veicolarono i princìpi della Rivoluzione Francese.
Né il pensatore tradizionalista – contrariamente a quello che ritengono i suoi detrattori – ha mai aspirato ad una restaurazione delle monarchie assolute. Per la sua Weltanschauung, le monarchie assolute sono figlie delle usurpazioni di Augusta e di Westfalia[22], non a quelle che guarda per la costruzione della sua Repubblica Ideale.
E non è neanche vero che il Fascismo si pose come continuità ideale del Risorgimento, non del “Risorgimento” di cui è “detrattore” Evola ai sensi di quanto sopra detto. Non seguiamo, logicamente, gli evolofobi nel loro agitare i momenti propagandistici: ritenere di stabilire una “continuità ideale” mercé riferimento a cartoline, francobolli e parate è del tutto fuorviante. Il Risorgimento era – infatti – un mito condiviso, e richiamarsi ad esso e ai suoi eroi significava un appello alla memoria collettiva. Inoltre, era il mito che giustificava il titolo di “Re d’Italia” della Casa Regnante e – quindi – rispondeva anche all’esigenza di cercare un punto di convergenza con la Monarchia…[23] Non a caso al Risorgimento ed ai suoi eroi fecero riferimento anche gli antifascisti.
Se è vero – com’è vero – che Togliatti respingeva ogni riferimento al Risorgimento in quanto “rivoluzione borghese”, affermando nel 1929: «Il Risorgimento è, per il piccolo borghese italiano, come la fanfara militare per gli sfaccendati. Fascista o democratico, egli ha bisogno di sentirsela squillare agli orecchi per credersi un eroe», e nel 1931: «…il Risorgimento ebbe un carattere stentato, una impronta reazionaria, mancò del tutto dello slancio di altre rivoluzioni borghesi. Appunto per ciò è assurdo pensare che vi sia un Risorgimento da riprendere, da finire, da fare di nuovo, e che questo sia il compito dell’antifascismo democratico. La rivoluzione antifascista non potrà essere che una rivoluzione contro il Risorgimento»[24], è altresì vero che Carlo Rosselli affermava: «Noi dobbiamo, il Risorgimento, ancora conoscerlo e studiarlo. Contro il Risorgimento ufficiale, scolastico, piemontese; per il Risorgimento popolare, rivoluzionario, ignoto ancora a troppi, stracciando gli interessati veli della storiografia ufficiale»[25].
Lo stesso Togliatti cambierà idea. Nel giugno 1941[26] affermerà: «Gli spiriti più illuminati del tempo del Risorgimento nazionale, gli uomini come Garibaldi e Mazzini… proclamavano che l’indipendenza di tutti i popoli è condizione dell’indipendenza e del benessere del popolo italiano. Non d’un impero conquistato colla violenza hanno bisogno gli italiani, ma della libertà nel loro paese e su scala internazionale».
Ma già da prima era iniziato l’interesse dei marxisti nei confronti degli eroi del Risorgimento. Dopo il VII congresso dell’Internazionale comunista del luglio-agosto 1935, e in seguito alle indicazioni date da Georgij Dimitrov nella sua relazione, i comunisti si indirizzarono verso una nuova lettura del Risorgimento e il recupero della figura di Garibaldi. In Italia, fu Giuseppe Berti a ricondurre la sua figura a quei principi di democrazia, libertà dei popoli, che lo CONTRAPPONEVANO AL FASCISMO. Garibaldi era visto da Berti come «un simbolo, la bandiera della lotta per la libertà, per la democrazia, per una maggiore giustizia sociale, per l’indipendenza nazionale; la bandiera della lotta contro l’assolutismo, contro il dispotismo, contro la reazione clericale, contro l’oppressione nazionale»[27].
E, difatti, nel 1936 furono intitolate a Garibaldi le brigate che combattevano in Spagna contro i franchisti (e i fascisti …). E Ruggiero Grieco ne spiegava la ragione: «Il popolo spagnuolo deve sapere che gli italiani non sono ridiventati borbonici, ma vogliono restare i nepoti di Garibaldi»[28].
A partire da allora, Garibaldi ed il Risorgimento faranno parte della mitologia comunista ed antifascista. A Garibaldi saranno intitolate le brigate dei GAP durante la Guerra Civile, il Fronte Popolare socialcomunista sceglierà quale suo simbolo per le elezioni politiche del 1948 proprio l’effige del Nizzardo. La mitologia resistenziale accosterà la guerriglia partigiana alle “lotte di liberazione” condotte dai moti risorgimentali. Nell’iconografia resistenziale la guerriglia partigiana è chiamata “Secondo Risorgimento”[29]. E via dicendo.
Coloro i quali si sentono investiti della potestà di rilasciare “patenti di fascismo” liquidano questo continuo riferimento degli antifascisti al Risorgimento come appropriazione tardiva ed indebita.
In realtà, non fu né tardiva, né indebita. Abbiamo già citato Carlo Rosselli, ma già Engels definiva l’impresa dei Mille «…una delle più stupefacenti imprese militari del nostro secolo, impresa che sembrerebbe quasi inconcepibile se non fosse per il prestigio che precede la marcia di un generale rivoluzionario trionfante»[30]. Ma anche Antonio Labriola nel discorso tenuto in Campidoglio il 2 giugno 1888[31] esaltava le caratteristiche “democratiche” del Risorgimento.
Né può chiamarsi “impropria”. Basta guardare i giornali dell’epoca per notare come l’impeto nazionalistico fosse assolutamente secondario rispetto alla proclamata “lotta alla tirannide”, all’affermazione dei Sacri Principi della Rivoluzione Francese. Lo stesso Garibaldi aderì alla Prima Internazionale. Ma, anche ove fosse davvero “tardiva ed impropria” l’appropriazione del Risorgimento da parte degli antifascisti, resterebbe valida la nostra annotazione: il Risorgimento viene rivendicato dall’una e dall’altra parte come Mito, non come Storia.
Sono note le rivendicazioni della continuità Risorgimento-Fascismo da parte degli uomini del regime (in particolare Giovanni Gentile), per cui non le esamineremo. Ci sono.
Ma, avendo chiarito che il Risorgimento viene visto come Mito, è su altre basi che dobbiamo valutare la rivendicata “continuità”. Sappiamo bene quanto il Duce apprezzasse il pensiero di Mazzini[32]. Ma, indipendentemente da ciò, il Risorgimento “vincente” fu quello di Mazzini?
Ricordiamo che NESSUN MOTO MAZZINIANO ebbe successo. Ricordiamo che Mazzini morì esule in Patria e dimenticato da tutti. E la dimensione mitica del Risorgimento è dimostrata anche da fatto che – come abbiamo visto – gli antifascisti si richiamano ad un Risorgimento “ideale” contrapposto a quello “ufficiale”, ma altrettanto fanno i fascisti, atteso che sono molti coloro i quali parlano del Fascismo come continuità con quel risorgimento “popolare” che era stato “soffocato” dalla borghesia ottocentesca. Nota Paolo Ricci nella sua biografia di Berto Ricci: «Ricci e Garrone fanno parte della giovane generazione, sono due giovani quindi che vivono le inquietudini di un’epoca e di un’età di crisi, hanno sete d’azione, sono desiderosi di amicizia di onestà intellettuale, ritengono di incidere nelle realtà dell’Italia fascista, cui aderiscono, e di realizzare in essa un rinnovamento della politica e della cultura, quindi in essi è presente l’esigenza di “fascismo autentico” che vedono come una rivoluzione popolare e antiborghese, da qui la loro entusiastica adesione al fascismo visto come antiliberale e come ripresa del Risorgimento popolare e repubblicano, soffocato dall’avida borghesia piemontese e dalla grettezza mercantile del Giolitti. Una posizione comune a molti fascisti di destra e di sinistra»[33].
Ed allora, è sulla base della comparazione tra Risorgimento e Fascismo che va valutata la presunta “continuità”, non attraverso i richiami di questo o quel pensatore fascista al periodo risorgimentale[34].
Bisogna – innanzitutto – analizzare se quanto affermato da Evola intorno al Risorgimento corrisponda alla sua effettività storica: «L’intera campagna che portò all’unità d’Italia – dai rivoluzionari del tardo Settecento, attraverso Mazzini e Garibaldi – si potrebbe definire essenzialmente massonica»[35].
Dobbiamo ricordare che il Fascismo dichiarò fuori legge la Massoneria? Dobbiamo ricordare che il Gran Consiglio nel 1923 stabilì l’incompatibilità tra Fascismo e Massoneria? Dobbiamo ricordare che anche quando era socialista, Mussolini al Congresso di Ancona del 1914 riuscì a far stabilire l’incompatibilità tra iscrizione al Partito Socialista ed appartenenza alla Massoneria? Dobbiamo ricordare che anche i nazionalisti nel congresso del 1912 stabilirono l’incompatibilità tra iscrizione al Partito ed appartenenza alla Massoneria?
Ma è nella sua essenza che il Fascismo si contrappone all’ideologia sottesa ai “moti” risorgimentali. Nella voce “Fascismo” sull’Enciclopedia italiana del 1932 si scrive: «(il Fascismo è) concezione spiritualistica, sorta anch’essa dalla generale reazione del secolo contro il fiacco e materialistico positivismo dell’Ottocento… il fascismo è contro tutte le astrazioni individualistiche, a base materialistica, tipo sec. XVIII; ed è contro tutte le utopie e le innovazioni giacobine… il fascismo è contro la democrazia che ragguaglia il popolo al maggior numero abbassandolo al livello dei più… Non è la nazione a generare lo stato, secondo il vieto concetto naturalistico che servì di base alla pubblicistica degli stati nazionali nel sec. XIX. Anzi la nazione è creata dallo stato, che dà al popolo, consapevole della propria unità morale, una volontà, e quindi un’effettiva esistenza. Il diritto di una nazione all’indipendenza deriva non da una letteraria e ideale coscienza del proprio essere, e tanto meno da una situazione di fatto più o meno inconsapevole e inerte, ma da una coscienza attiva, da una volontà politica in atto e disposta a dimostrare il proprio diritto: cioè, da una sorta di stato già in fieri. Lo stato infatti, come volontà etica universale, è creatore del diritto». Basterebbero solo queste “pennellate” per concludere che, al di là delle posizioni propagandistiche, il “pensiero” fascista non può in alcun modo essere considerato in continuità con il pensiero risorgimentale, giacché la stessa Idea di Nazione, che ne rappresentò il momento più alto e più nobile, viene rovesciata nella sua ontologia[36].
Evola, dunque, non può essere considerato “estraneo” al fascismo. Ma la domanda che ci poniamo è un’altra. Considerato il fiorire di aspiranti funzionari della Motorizzazione e della loro pretesa di possedere l’autorità per attribuire o negare la patente di “fascista”, perché questo accanimento nei confronti di Evola? Perché solo su di lui è un accavallarsi di attacchi di vario genere estesi alla persona?
Non so che pensare, ma ricordo che gli “evoliani” nell’ambiente neofascista erano circondati da un alone di mistero, erano considerati una sorta di setta chiusa affetta da incomunicabilità con il resto del mondo neofascista. A Napoli ci chiamavano ironicamente “I figli del Sole”, residuo del nomignolo affibbiato in senso dispregiativo dagli avversari interni alla “corrente” giovanile del MSI fondata da Enzo Erra negli anni Cinquanta, cui afferì gente come Rauti, Accame, Buscaroli.
Prima che diventasse presidente del FUAN Caravella, Biagio Cacciola (che pur non essendo di scuola evoliana, era sempre in mezzo a noi) ci scherzava su, parafrasando una nota canzone di Paolo Conte, e cantando:
Con quella faccia un po’ così,
Quell’espressione un po’ così
Che avete voi, che avete letto Evola …
Che gli “evoliani” non fossero come erano dipinti, se ne accorse tra i primi il compianto Pietro Golia. Quando fondò il circolo culturale Controcorrente, pur provenendo da un’area molto distante da quella “evoliana”, quella che si rifaceva a Luciano Lucci Chiarissi, avendo fatto parte della Jeune Europe e poi di Lotta di Popolo, ebbe tra i suoi primi collaboratori anche appartenenti all’area “evoliana”, tra cui un giovanissimo, Stefano Arcella, che diventerà una delle firme “di punta” della Casa Editrice che Pietro fonderà con lo stesso nome negli anni Novanta.
E le manifestazioni culturali promosse dal circolo fin da subito non fecero distinzioni tra i “fascisti”. Silvio Vitale, Gabriele Fergola ed altri intellettuali tradizionalisti furono fra gli ospiti costanti delle manifestazioni culturali di Controcorrente.
Gli ambienti giovanili che si richiamavano al fascismo – d’altronde – fin dai tempi dei primi Campi Hobbit (non a caso ospitati da un “evoliano”, Generoso Simeone), sperimentarono la “apertura” degli ambienti “evoliani”.
Nonostante ciò, il riflesso condizionato nei confronti di Evola è rimasto. Ed è rimasta anche una sorta di malcelata invidia per lo spessore intellettuale di Julius Evola. Nessun pensatore di “area” ha – infatti – il seguito e l’attenzione riservata dagli studiosi a lui, nonostante l’ostracismo del mondo antifascista[37].
Tralasciando gli studi condotti in Patria, Evola è uno dei pensatori italiani più studiati all’estero. Da una serie di appunti di Martin Heidegger[38] sappiamo che il massimo filosofo del XX secolo conosceva ed apprezzava Evola, tanto da citare un intero passo della Rivolta.
Ma ancora oggi, a distanza di 43 anni dalla morte, fuori dall’Italia non è scemato l’interesse per Evola. Ha fatto clamore la citazione di Evola da parte del consigliere di Trump, contro cui c’è stata la levata di scudi del mondo radical chic. Ma nel mondo culturale fuori dall’Italia è un fiorire non solo di traduzioni delle opere del tradizionalista romano, ma anche di studi sul suo pensiero.
Solo alcuni esempi. Paul Furlong, docente di Studi Europei dell’Università di Cardiff, ha dedicato un vendutissimo volume alla visione evoliana della politica e della società [39]. Al pensiero di Evola è dedicato un intero volume di Aristokratia, la raccolta di K. Deva dedicata ai pensatori “controcorrente”. L’importanza riconnessa dai curatori della raccolta al pensiero di Evola può – semplicemente – desumersi dal fatto che è L’UNICO filosofo a cui sia stato dedicato un intero volume [40].
Un accostamento di Nicolás Gómez Dávila a Evola può ritrovarsi non solo nei glossatori italiani del pensiero del grande scrittore colombiano, ma anche negli studiosi di diversi paesi del mondo, come Gwendolyn Taunton[41].
Probabilmente, gli evolofobi non riescono ad accettare ciò e vengono colti da disturbi ossessivi. Ed è strano che uno dei più accaniti evolofobi, una pecorella smarrita del gregge di Tatarella, sia proprio chi ha potuto constatare con mano che il mondo degli evoliani non è settario in alcun modo, atteso che il reduce tatarelliano ha potuto trovare ospitalità per i suoi scritti grazie anche ad ambienti evoliani…
In conclusione, un breve messaggio in due punti agli evolofobi da parte dell’autore dell’articolo:
1. Cari evolofobi, se il fascismo fu quello incarnato da Primo Arcovazzi, lo confesso: io non sono fascista. Negatemi pure la patente, posso guidare lo stesso…
2. Cari evolofobi, rassegnatevi: Evola è tradotto e studiato in tutto il mondo… Tatarella non va oltre la Gazzetta del Mezzogiorno…
[1] Edizioni del Tridente, 1973, ora giunta alla quinta edizione, riproposta dalle Edizioni Mediterranee nel 2003.
[2] Evola scrisse sulle maggiori riviste specialistiche, Messner ha più volte ribadito che solo chi ha veramente effettuato le scalate descritte da Evola può aver scritto quel libro, ci sono le testimonianze del suo compagno di scalate… Ma gli evolofobi sono disposti a credere a chiunque denigri Evola, in qualunque modo.
[3] L’allora compagna (poi moglie) Franca Rame organizzò una raccolta di fondi in favore dell’assassino dei fratelli Mattei, fondi che gli saranno utili per la sua lunga latitanza, che lo portò – uno dei pochi casi del genere – a non scontare la pena a diciott’anni a cui era stato condannato per incendio doloso con duplice omicidio quale conseguenza del reato d’incendio. E Dario Fo spalleggiò attivamente la compagna, nell’ambito delle attività “istituzionali” di Soccorso Rosso – sul punto, v. Pierluigi Battista, Il rogo di Primavalle falò delle verità, in Corriere della Sera, 28 aprile 2008, p. 28.
[4] Il momento d’incertezza fu generale. Persino la mitica “Divisione M” fu incorporata nell’esercito badogliano agli ordini di Calvi di Bergolo e solo dopo l’8 settembre i più “intransigenti” lasciarono l’esercito italiano e aderirono alla RSI – sul punto, cfr. Ettore Lucas e Giorgio De Vecchi, Storia delle unità combattenti della M.V.S.N. 1923-1943, Giovanni Volpe Editore, Roma 1976.
[5] All’ampia disamina dei movimenti di Evola dopo il 25 luglio è interamente dedicato il libro di Gianfranco de Turris Julius Evola. Un filosofo in guerra 1943-1945, Mursia, 2016.
[6] L’art. 166 del testo unico delle leggi di Pubblica Sicurezza, approvato con Regio Decreto 6 novembre 1926, n. 1848, prevedeva la diffida nei confronti delle “persone pericolose” che erano ammonite a cambiar condotta. Il contenuto della diffida, è pubblicato in Julius Evola, Il cammino del cinabro, Edizioni Mediterranee, Roma 2014, p. 214.
[7] Il clima di intimidazioni nei confronti di Evola è da lui raccontato in Il cammino del cinabro, cit., pp. 197 ss. Massimo Scaligero in Testimonianze su Evola riferisce che si dovette attivare per fare scortare Evola al fine di preservarlo dalle aggressioni di chi, incapace di contrastarlo sul piano degli argomenti, passava a metodi da gangster (cfr. la nota n. 266 alla citata edizione del Cammino)
[8] Punto 7, p. 5 dell’edizione 1984 edita dal Settimo Sigillo.
[9] Pp. 189 ss. della citata edizione del Cammino. L’articolo su La Torre è riportato integralmente nell’appendice.
[10] Ibidem.
[11] O sia stato? Ci ritorneremo.
[12] L’opera, in due volumi, fu edita da Einaudi nel 1988 con il titolo Il matriarcato. Ricerca sulla ginecocrazia del mondo antico nei suoi aspetti religiosi e giuridici.
[13] Evola aveva curato un’antologia degli scritti di Bachofen per Bocca nel 1949, con il titolo Le Madri e la virilità olimpica, riproposto dalle Edizioni Mediterranee nel 2010, con una nota introduttiva di Giampiero Moretti.
[14] Discorso del 9 maggio 1936, annuncio della fondazione dell’Impero.
[15] Georg Zachariae, Mussolini si confessa, Rizzoli, Milano 2004, p. 32.
[16] Georg Zachariae, Mussolini, cit., pp. 33 ss.
[17] In realtà è in atto una mistificazione, perché si spacciano per “valori universali” dei semplici accidenti come le forme di governo, ma ai fini del nostro discorso è importante che si voglia far passare la “universalità” dei “valori” legati a ciò che viene chiamato “antifascismo”.
[18] Julius Evola, Cavalcare la tigre, Scheiwiller, Milano 1961, p. 40.
[19] Julius Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Edizioni Mediterranee, Roma 1998, p. 143.
[20] Nel VII libro della Repubblica, Platone, dopo aver detto che i mercanti sono comunque necessari, afferma che il governo della città dev’essere affidato a chi è ricco non di denaro, ma di qualità superiori e che gli uomini “superiori” devono imparare a studiare l’essenza dei numeri e non la loro applicazione pratica, da lasciare ai mercanti.
[21] Dietro le quinte della storia. Il vero volto del Risorgimento, in L’Italiano, n. 3, marzo 1959.
[22] Julius Evola, Rivolta, cit., p. 348.
[23] Altro paradosso tangibile degli evolofobi, che distinguono un fascismo “buono” (quello di San Sepolcro e della RSI) ed un fascismo – regime compromesso con la Chiesa, gl’industriali e…i Savoia, eppure a loro sfugge l’utilizzo strumentale del mito risorgimentale da parte della Casa Regnante…
[24] Questi brani degli scritti di Togliatti sono citati in Palmiro Togliatti – La politica nel pensiero e nell’azione: Scritti e discorsi 1917-1964, a cura di Michele Ciliberto e Giuseppe Vacca, Bompiani, Milano 2014, p. 2379.
[25] Articolo pubblicato con lo pseudonimo di “Curzio” su Giustizia e Libertà del 26 aprile 1935, con il titolo Discussione sul Risorgimento, oggi in L’unità d’Italia. Pro e contro il Risorgimento, a cura di Alfredo Castelli, Edizioni E/O , Roma 1997, pp. 40 ss.
[26] L’Italia nella morsa del fascismo, ora in Palmiro Togliatti, cit., pp. 93 ss.
[27] Garibaldi nella rivoluzione nazionale italiana, in Lo Stato operaio, a. X, n. 9, settembre 1936, pp. 599-601.
[28] Articolo apparso sull’Unità, citato da Albertina Vittoria nella raccolta Garibaldi, due secoli di interpretazione, Gangemi, 2010, p. 326.
[29] Curiosa la tesi di Claudio Pavone, che nell’articolo Le idee della Resistenza. Antifascisti e fascisti di fronte alla tradizione del Risorgimento, in Passato e Presente, n. 7, gennaio-febbraio 1959, in pratica dice che la resistenza azionista era risorgimentale, quella socialcomunista no.
[30] K. Marx, F. Engels, Sul Risorgimento italiano, Editori Riuniti, Roma, p. 360.
[31] Pubblicato in Antonio Labriola, Scritti politici, Laterza, Bari 1970, pp. 159-162.
[32] Georg Zachariae, Mussolini, cit., p. 71.
[33] http://www.thule-italia.net/Storia/BertoRicci.html.
[34] In altri contesti abbiamo ricordato come, ad esempio, Stalin, a partire dalla seconda metà degli anni Trenta, impostò una politica patriottistica, recuperando l’intera storia russa verso cui la rivoluzione d’ottobre si era presentata come elemento di rottura. E “riscoprì” anche attraverso la formidabile arma di propaganda rappresentata dal cinematografo, personaggi come Aleksandr Nevskij e Ivan il Terribile. Da ciò dobbiamo forse dedurre che il comunismo sia “in continuità” con il grande condottiero ed il grande Zar?
[35] Michael Baigent, Richard Leigh, Origini e storia della Massoneria. Il Tempio e la Loggia, Newton Compton, Roma 2014, p. 172. Luigi Prunetti e Aldo A. Mola dedicano un intero volume a Risorgimento & Massoneria, Atanòr, Roma 2013.
[36] Una sintesi dell’Idea di Nazione affermatasi nel XIX secolo è stata da noi esposta in Bismark e Cavour: licet parva componere magnis?, disponibile su «Ereticamente».
[37] A dire il vero, si tratta di un ostracismo monotematico: Evola è il “filosofo razzista” – et de hoc satis. Carlo Bo – La morte di Giulio Evola, profeta degli ultrà di destra, in Corriere della Sera, 12 giugno 1974 – lo chiama “profeta del genocidio”. Umberto Eco, su l’Espresso del 12 aprile 1987 cita la prefazione di Evola a un’edizione del Protocolli e così la commenta: «Quanto abbiano contato i Protocolli per far gassare sei milioni di ebrei, lo si sa. Chi ha scritto queste parole è un triste e dissennato figuro chiamato Julius Evola, che negli ultimi anni la Nuova Destra ha riproposto come pensatore di rango, mentre alcuni imbecilli della nuova sinistra hanno concesso che in fondo, sì, l’uomo aveva alcune qualità (preciso che queste che ho citato sono tra le pagine più razionali di Evola, la maggior parte delle altre è occultismo da operetta di cui si vergognerebbe il mago Otelma)». Da perfetto “democratico”, Eco marcava la differenza “antropologica” tra lui e chi non la pensava come lui, quest’ultimo relegato tra gli “imbecilli”…
[38] Edito da Bompiani nel 2015 con il titolo di Quaderni Neri. La Casa editrice ha iniziato la pubblicazione degli appunti del filosofo con il primo volume.
[39] Paul Furlong, Social and Political Thought of Julius Evola (Extremism and Democracy), Routledge, 2011.
[40] La raccolta è arrivata al IV volume, pubblicato nel 2016.
[41] Alternative Right, 18 maggio 2014.